L’annuncio della morte del celebre attore afroamericano ha risvegliato nella mia memoria la sorpresa provata incontrandolo, all’improvviso, al seguito del cardinal Lustiger. Accompagnavo quest’ultimo in una serie di conferenze che aveva accettato di tenere negli Stati Uniti all’inizio del luglio 1989. Eravamo stati a New Orleans, poi in Texas e c’era una tappa a Los Angeles, prima di San Francisco e poi del Canada, dietro invito di Lucien Bouchard, ex ambasciatore di Parigi, richiamato dal proprio governo per metterlo a capo di un ministero.
Il Cardinale era contento di tornare negli Stati Uniti, non più in una visita-lampo come quella che aveva dovuto fare da arcivescovo di Parigi in risposta alle puntuali sollecitazioni di omologhi americani, ma un po’ più diffusamente come aveva fatto vent’anni prima. Aveva infatti passato l’estate del 1969, dopo aver lasciato il Centre Richelieu e prima di assumere l’ufficio di parroco di Sainte-Jeanne de Chantal, percorrendo il Paese zaino in spalla e incontrando tutti quelli che incrociavano il suo cammino. Letteralmente persone di ogni tipo. Aveva anche potuto assistere in diretta, con la famiglia che in quel momento lo ospitava, ai primi passi di un uomo sulla Luna.
Dietro le quinte di Hollywood
Per lui l’America era la potenza morale che aveva avuto ragione della barbarie nazista. Era anche – e costruttivamente, grazie all’immigrazione divenuta massiccia alla fine del XIX secolo – una specie di Europa senza guerre, con una sola lingua e ispirata dalla Bibbia. Certo vedeva bene che, come già l’antico popolo ebraico, la nazione era lungi dall’essere rimasta fedele alle promesse in cui aveva creduto, e restava tentata dall’idolatria del denaro e dall’illusione di supremazie tecnologiche, politiche e razziali, in forza delle quali privava dei loro diritti – in casa propria e in giro per il mondo – i poveri che Dio ama.
I nostri ospiti dell’arcivescovado di Los Angeles ci portarono a Hollywood – uno dei capoluoghi locali –, e fin dentro agli Universal Studios, non soltanto nel parco divertimenti che fa concorrenza a Disneyland, ma proprio (privilegio dei VIP) dietro le quinte, lì dove si girano i film. E insomma ci siamo ritrovati tutti in un angolo di un immenso hangar in cui la luce del sole non penetrava mai, dove si stava preparando la scena tratta da un romanzo d’appendice sulla vita quotidiana di una famiglia nera. Gli attori, circondati da tutta una squadra di tecnici, erano bambini, c’era qualche adolescente, c’erano i genitori, e in mezzo alla selva di cavi, putrelle metalliche, proiettori, videocamere su carrelli e binari, microfoni penzoloni da aste e canne… c’era l’arredamento di un soggiorno. La star era Sidney Poitier.
Un apostolo della de-segregazione
Quando arrivammo, tutti sul set si fermarono. La nostra guida, uno dei direttori degli Universal Studios, si scusò per l’intrusione e fece le presentazioni, ma fu presto chiaro che era tutto inutile, almeno per le due “celebrità”: la vedette del cinema e l’arcivescovo di Parigi sapevano già molto bene l’uno chi fosse l’altro, che cosa l’altro rappresentasse e cosa entrambi condividessero. E questo al punto che, indipendentemente da una cordialità imprevedibile fra due persone i cui cammini s’incrociavano solo per caso, fu un momento di comunione tale da sconcertare quanti ne furono testimoni… e da dischiudere qualche orizzonte.
Il cardinale Lustiger sapeva che Sidney Poitier era stato, nel 1964, il primo Nero a ricevere l’Oscar al miglior attore relativamente alle pellicole dell’anno precedente, per il suo ruolo da protagonista in I gigli del campo. Il suo personaggio era un vagabondo in cerca di lavoro, che incappava in un buco sperduto dell’Arizona in alcune religiose finite là dopo aver fuggito il regime comunista nella Germania dell’Est. Quelle avevano bisogno di aiuto per riparare il loro tetto, poi per costruire la loro cappella, e l’operaio itinerante, che non era cattolico, faceva il lavoro e ripartiva senza essere stato pagato, dopo aver offerto per di più delle lezioni d’inglese e la sua interpretazione di diversi passaggi dei Vangeli, in sessioni di oratorio piene di verve con la madre superiora.
È stata un po’ una costante: Sidney Poitier ha incarnato personaggi di afroamericani che si rivelavano dei salvatori (ad esempio nel 1958, in La Catena, dove la sua sorte è legata a quella di un forzato bianco e razzista interpretato da Tony Curtis) o che si mostrano almeno uguali ai bianchi, se non più esigenti dal punto di vista morale e anche culturale (come nel 1967 con Indovina chi viene a cena, dove impersona un famoso medico nero, vedovo, che sposa una ragazza bianca della buona borghesia malgrado l’opposizione delle due famiglie e col sostegno di un monsignore cattolico). Accanto a Martin Luther King e al popolare cantante Harry Belafone, originario del quartiere nero di Harlem a New York, Sidney Poitier si è impegnato nella lotta non-violenta per la de-segregazione e per l’uguaglianza nei diritti civili.
Neri ed Ebrei in America
Non aveva affiliazioni religiose (sebbene la madre lo avesse cresciuto nella pietà della Chiesa cattolica), ma per lui, come per la maggior parte degli afroamericani, l’odissea del popolo ebraico, dalla schiavitù in Egitto fino alla Terra Promessa passando per il deserto, era – più che un modello – la garanzia che la loro causa fosse giusta, e di una giustizia superiore a quella degli uomini.
Non per questo la figura dell’Ebreo era sempre positiva, perché il negoziante del ghetto nero che non voleva più fare credito era spesso un giudeo, e alcune comunità hassidiche scacciate dall’Europa dell’Est si impossessarono, nelle periferie povere delle grandi città del Nord, di quartieri occupati dai discendenti sempre socialmente marginalizzati degli schiavi del Sud.
Fu però grazie a un vecchio ebreo che Sidney Poitier imparò a recitare un testo, e per lui Aron Jean-Marie Lustiger, la cui madre era stata assassinata ad Auschwitz, era un fratello a due titoli: nella persecuzione e anche nella speranza oltre l’indignazione. Il Cardinale scrisse più tardi che
Un duetto di negro-spiritual
Ciò che il Nero onorato da Hollywood e l’Ebreo ornato della porpora romana – possiamo dire “Il Nero e il Rosso” – avevano in comune erano dei negro spirituals, che hanno evocato e anche canticchiato insieme: Let my people go (il cui ritornello recita “Go down, Moses”: «Va’, Mosè, scendi a dire al Faraone di lasciar partire il mio popolo»); Free at last! Thank God almighty, we’re free at last! («Finalmente liberi! Grazie a Dio onnipotente siamo tutti liberi!», ripreso da Martin Luther King nel suo famoso discorso del 1963 I have a dream); When the saints go marching in («Quando i santi entreranno in paradiso»).
È stata quest’ultima aria che il Cardinale aveva chiesto di suonare, pochi giorni prima, a un ragazzo che suonava la tromba su un molo del porto di New Orleans. E Let my people go è il titolo da lui dato a una conferenza fatta tre anni più tardi, nel 1992, alla prestigiosa Yale University, nel Connecticut. Il Cardinale vi affermava quel che Sidney Poitier aveva provato in tutta la sua carriera, e cioè che i Neri deportati nelle Americhe hanno parte – proprio come le “nazioni” bianche, gialle o brune – alla dignità dei figli di Dio di cui Israele resta testimone (il testo si trova in L’Alliance, Presse de la Renaissance, 2011, pp. 147-169).
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]