Mi è difficile trovare punti di contatto tra la fantascienza e la teologia, in genere (questione di attitudini personali, tutto qua), e la difficoltà cresce ancora se cerco affinità tra la letteratura a fumetti e quella patristica (che pure amo entrambe). A compiere questo piccolo prodigio bibliografico, tuttavia, può bastare talvolta il disordine di una scrivania (quella del sottoscritto), sulla quale capita che si trovino abbracciati nel gesto di un mutuo segnapagina un volume di Watchman (storico fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons) e uno de L’Ora di Lettura commentata dai Padri della Chiesa (l’impagabile antologia curata dalle EDB a complemento della Liturgia delle Ore).
Era il 1986 quando usciva il nono albo della serie Watchman, dal metafisico titolo “Nelle tenebre del puro essere”: tra i dodici albi, questo è uno di quelli più intensamente dedicati all’inquietante personaggio del Dr. Manhattan, un superuomo così super-uomo da essere definito divino in senso stretto («Dio esiste ed è americano», si legge in una tavola).
Il Dr. Manhattan e il “miracolo termodinamico”
Come altri supereroi, anche lui nasce negli anni ’60 dall’esposizione a tecnologie atomiche in fase di sviluppo allo scopo di sostenere la contrapposizione tra i blocchi della Guerra Fredda, ma il punto che ci riguarda qui è un altro: a differenza di Hulk o di altri, il Dr. Manhattan è stato completamente disintegrato in un incidente nucleare e – senza che se ne comprenda bene la ragione ultima – la sua anima (anche se il fumetto preferisce parlare di coscienza) è riuscita a ristrutturarne tutto l’organismo, guadagnando in ciò una sovranità sul proprio essere che eccede di gran lunga la dimensione organica o anche solo l’identità personale: il fu Dr. Osterman accede a una specie di “coscienza quantisticamente aumentata”, per la quale i suoi pensieri sono continuamente presi dalla visione dell’essere, fin nelle sue particelle subatomiche, e del tempo, a partire da una Relatività che rende il Dr. Manhattan com-presente a ogni istante della storia.
Ciò implica, a mo’ di corollario, che il Superuomo abbia acquisito una generale prescienza dei futuri, derivata dal fatto di essere già presente in ogni futuro: egli non si serve però di questa condizione per alterare lo scorrere del tempo (del resto se lo facesse si innescherebbe un paradosso cortocircuitante, specie per chi conosca i futuri ma non i futuribili – ma questa è un’altra storia), e questo un po’ per “scelta etica”, diciamo così… e un po’ per la “distrazione” di chi è troppo preso dall’osservazione delle interazioni tra quark e gluoni per ricordarsi che la sua amata non può respirare autonomamente su Marte. «Tu capisci tutto – gli rimproverano infatti entrambe le donne della sua vita – tranne le persone».
La condizione del Dr. Manhatan ricorda per diversi aspetti quella di Gesù, salvo che in Cristo la “coscienza espansa” non va a porsi su un semplice uomo, bensì sul Verbo eterno di Dio incarnato, e dunque quando Cristo resti assorto a considerare la precisione delle interazioni fra quark e gluoni (per riprendere l’esempio di prima) la sua coscienza non si alienerebbe dalla vita, non vagherebbe in un essere-altro-da-sé, poiché quell’ordine cosmico sarebbe fin da principio un riflesso cosciente della propria volontà divina. Ma questo (pure insieme con molto altro) sarebbe ancora il meno: il tratto saliente della coscienza di Cristo, infatti, già da prima dell’unzione pasquale, è la sua figliolanza, mentre il Dr. Manhattan dichiara apertamente “Io non credo in Dio, e se Dio esiste non sono io”. Questo Superuomo non potrebbe dire nulla di più distante dai pensieri di Cristo, ed ecco la ragione fondamentale per cui nessuno ha mai rimproverato a Gesù di non capire le persone. Anzi, di lui il quarto evangelista scrive: «Conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo» (Gv 2,24-25).
Questo il segno della radicale differenza tra i due: il Dr. Manhattan è in grado di contemplare tutti gli ingranaggi, dai minimi ai massimi, dell’orologio cosmico, ma nega esplicitamente di avere visto un Orologiaio; Cristo invece conosce tutti e singoli quegli stessi ingranaggi, essendo il Figlio dell’Orologiaio e Orologiaio Egli stesso. Ma perché questa premessa?
Perché se anche nella coscienza di Cristo, prima della Pasqua, permase lo spazio di nescienza necessario a un genuino e umano stupore, nel Dr. Manhattan (che comunque si analoga al Cristo pasquale, non a quello pre-pasquale) permane un’ignoranza fondamentale sul senso dell’essere che lo rende inabile a esprimere un giudizio morale, oltre che a strutturare un orientamento etico. Su Marte Jon (come il Dr. Manhattan si fa chiamare in amicizia) produce acqua e latte per la ex compagna Laurie, ma per uno che assembla e disseziona gli atomi questo è poco più di un gioco di prestigio… a distogliere il “figlio orfano di Dio” dal suo cinismo quantistico è invece la considerazione di un miracolo – quello che egli stesso chiama, spiegandolo, “miracolo termodinamico”. Lo si descrive in due delle pagine più intense dell’albo e della raccolta:
Se uno guarda la sequenza cinematografica che traspone le due pagine si capisce perché Moore abbia diffidato i produttori dal mettere il suo nome sulla sceneggiatura… ad ogni modo il senso permane grossomodo riconoscibile.
Watchmen è un fumetto scritto, disegnato e colorato con felicissima sintesi di genî artistici disparati, e anche il fatto che si narrino storie tanto articolate e profonde è un prodigio, che forse potremmo chiamare “miracolo psicodinamico”. Esso ridonda, fra l’altro, di allusioni e citazioni scritturistiche, ma non per questo è dato di sapere se Moore veda nell’universo più senso di quanto ve ne scorga il suo Dr. Manhattan: di certo sarà meno in grado di lui di materializzare una bottiglia d’acqua su un pianeta extraterrestre, nonché di convertirne il contenuto in un altro liquido. Commentando il più celebre dei miracoli di questa schiatta, un uomo di per sé non più abile di Moore nel trasformare l’acqua in latte faceva da un pulpito un discorso che assomigliava molto a quello di Jon a Laurie.
Agostino e i “miracoli quotidiani” che non guardiamo più
Era probabilmente il 31 marzo del 407, quando l’ormai 53enne vescovo di Ippona, Agostino, parlò al suo popolo appunto dei “miracoli termodinamici”. Gli diede lo spunto la seconda pagina del Vangelo secondo Giovanni, che ha trasmesso alla storia il ricordo delle Nozze di Cana:
Nel 1986 non era ancora crollato il muro di Berlino, e nel 407 non c’era ancora stato il Sacco di Roma: sia Moore sia Agostino hanno scritto in un mondo dalle tensioni crescenti ma bilanciate, e in particolare il Vescovo non era ancora entrato nelle due grandi lotte che avrebbero caratterizzato l’ultimo ventennio della sua vita (quella contro il pelagianesimo e quella contro le detrazioni storico-teologiche dei pagani). Nel pieno rigoglio del suo vigore umano ed ecclesiastico, e forte delle lezioni tratte dal superato manicheismo, Agostino invitava i cristiani di Ippona a disporsi alla vera philosophia che è la fede cristiana tramite uno sguardo di stupore, a quel mirare da cui viene la parola “miracolo”.
Giovanni Crisostomo e la “via dei Magi” dalla diafania all’epifania
La parabola amorale [alert spoiler!] del personaggio del Dr. Manhattan sul finire di Watchmen dice quanto sia sempre possibile guardare tutto senza vedere niente (non a caso il Superuomo ha i bulbi oculari luminosi ma vuoti), mentre già al primo filosofo greco dell’“elenco canonico” (lo ionico Talete) si attribuisce il mistico detto “tutto è pieno di dèi”. Sempre in greco “epifania” vuol dire “manifestazione”, ma nel senso di “apparire-in-superficie” (e in questo si differenzia dalla “diafania” che indica l’ordinario “apparire-attraverso”): se i Magi poterono mettersi in marcia fu perché un “evento diafanico” – la Stella – si impose alla loro attenzione più di altri, anzi dando voce al sommesso sospiro di tutte le cose nell’ascolto del quale essi vegliavano; a Betlemme li avrebbe poi sorpresi l’“evento epifanico” –
Parole che siamo abituati a dare per scontate come gli acini d’uva in cui l’acqua del cielo già comincia a diventare vino delle tavole. Giovanni Crisostomo, invece, maestro di stupore, avrebbe così predicato a Costantinopoli:
I vaticinî poetici-sibillini di Prudenzio e Pascal
Contemporaneo di Agostino e del Crisostomo, il giurista, governatore e poeta ispanico Prudenzio dedicò il dodicesimo e ultimo inno del suo Cathemerinon Liber al mistero diafanico della Stella – quello che convocò i magi dall’Oriente e che brillò pure negli occhi di Agostino e del Crisostomo (nonché in quelli, immaginifici e vuoti, dell’Osterman/Manhattan di Moore – e sarà suggestivo rammentare che “Osterman” è il tedesco per “uomo dell’Oriente”). Ancora oggi la Liturgia delle Ore lo canta alle Lodi in questo breve Tempo di Epifania. In due tra le ultime quartine così l’innografo descrive il senso religioso che conduce i Magi dalla diafania del “miracolo termodinamico” all’epifania di Cristo, Creatore e Redentore dell’universo:
Dunque è la “disposizione”, un qualcosa di innato, a decidere a priori delle vite delle persone? Questa è una domanda tra le più difficili che l'uomo possa porsi, e neppure la pluridecennale disputa de auxiliis ne venne a capo. La fede ci insegna però a ritenere due punti:
Una marca distintiva di chi “vede e segue la stella”, però, il racconto di Matteo ce l'ha lasciata:
La gioia: proprio uno dei tratti la cui assenza rende non invidiabile la solitaria onnipotenza del Dr. Manhattan.