Pensare alla propria morte è una saggia raccomandazione della spiritualità cristiana fin dagli inizi, perché pensare alla morte implica necessariamente il fatto di pensare a questa vita e a quella futura. Pochi cristiani, però, sembrano praticare questa raccomandazione a fondo come i monaci certosini.
Il giornalista francese Nicolas Diat, direttore della collezione della prestigiosa casa editrice Fayard, è autore di un ottimo libro sulla fine della vita nei monasteri, Un temps pour mourir (Tempo per morire), lanciato in francese dalla stessa casa editrice. Diat, tra l'altro, ha anche firmato quattro libri con il cardinale Robert Sarah, ex prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: Dio o niente (2015), La forza del silenzio (2016), Si fa sera e il giorno ormai volge al declino (2019) e Dal profondo del nostro cuore, quest'ultimo con la partecipazione del Papa emerito Benedetto XVI.
Chi ha tempo per morire?
In Tempo per morire, Diat riferisce delle visite che ha fatto a otto monasteri maschili contemplativi francesi per provare a capire come il monaco cristiano affronta il mistero della morte e che tipo di messaggio possono trasmettere i monasteri all'uomo occidentale postmoderno, tanto impreparato ad affrontare la morte in generale e la propria in particolare.
Tra le famiglie monastiche menzionate nell'opera appare quella dei Certosini, monaci dalla rigida vita di clausura, il cui ordine fondato da San Bruno ha quasi mille anni ed è noto come il più austero e silenzioso della Chiesa cattolica.
Come i Certosini affrontano la propria morte
In un passo del libro condivisa da varie pagine web, Diat afferma che “i Certosini non hanno paura di lasciare questo mondo”. Per esemplificare, commenta che il cimitero dei monaci certosini è in mezzo al chiostro centrale, il che fa sì che ogni giorno, fin dal noviziato, la comunità debba passare di lì per arrivare in chiesa. Quando un certosino muore, prosegue il racconto, tutta la comunità si riunisce nella cella del defunto per raccogliere il corpo e condurlo in processione in chiesa, nel cui coro i monaci pregano per la sua anima accanto al corpo deposto a terra.
“Il verbo 'seppellire' assume tutto il suo significato”
Le fosse del cimitero sono scavate dagli stessi Certosini, e lì vi vengono scesi i corpi, attaccati a una semplice tavola. Visto che il cimitero non è grande, i monaci risistemano con le proprie mani i crani e le ossa delle sepolture più antiche per far spazio a chi è morto più di recente. Diat aggiunge che tradizionalmente chi tiene la croce processionale e la colloca ai piedi della sepoltura è il novizio entrato per ultimo in monastero, di modo che è colui che vede più da vicino il corpo del defunto e il cappuccio abbassato sul suo volto – volto che inoltre, in base alle antiche direttive della Certosa risalenti al XII secolo, è rivolto verso la chiesa conventuale. Il novizio che ha portato la croce processionale ha anche l'opportunità di osservare più nitidamente il compito dei quattro Certosini scelti dal priore per gettare palate di terra sul corpo del fratello defunto, gesto con cui il “il verbo 'seppellire' assume tutto il suo significato”. La comunità aspetta che la fossa sia tutta piena di terra.
Il passaggio alla vita eterna dev'essere celebrato
Nicolas Diat registra che fin dalla fondazione dell'Ordine certosino i giorni dei funerali sono vissuti dalla comunità come celebrazioni. Nel caso in cui si tratti di giorni di digiuno, il digiuno viene cancellato; se si tratta di giorni ordinari, i Certosini pranzano insieme in refettorio anziché soli nella loro cella, e la sera, stavolta sì ciascuno nella propria cella, consumano un altro pasto completo invece di mangiare in modo frugale.
Dopo la sepoltura, si riuniscono nella sala capitolare e ascoltano dal priore un sermone che ricorda la vita del defunto. Segue un tempo di ricreazione in cui i monaci, che normalmente osservano il silenzio assoluto, parlano del fratello che è appena partito per l'eternità. Possono anche entrare nella cappella dei defunti per meditare sulla propria morte accanto alle ossa dei primi Certosini, dei secoli XI e XII. A quella cappella, nei giorni di cammino all'aperto, i monaci si dirigono per pregare prima di andare verso la montagna.
Tumuli senza nome
Le fosse del cimitero certosino non riportano alcun nome. Da un lato, le croci fine e nere di legno indicano i tumuli di sacerdoti e religiosi, dall'altro croci di pietra indicano “l'ultima dimora terrena dei priori”. Sia nella vita che nella morte, i Certosini scelgono di scomparire completamente agli occhi del mondo – e dopo la propria morte anche agli occhi dei fratelli. L'anonimato è tale che col passare del tempo la comunità non è più in grado di dire con precisione quale sia il tumulo di un determinato monaco nel suo cimitero. I Certosini, osserva Diat, muoiono senza lasciare traccia: “l'oblio segue immediatamente la morte”.
Due racconti toccanti
Il giornalista francese aggiunge due racconti toccanti che indicano quanto i Certosini si dedichino a Dio al punto da scomparire in modo praticamente assoluto agli occhi del mondo.
Diat scrive che nel XIX secolo i monaci di una certosa stavano scavando una grotta quando hanno trovato il corpo di un compagno sepolto decenni prima, ancora perfettamente conservato. Sono andati subito ad avvisare il priore, che senza battere ciglio ha dichiarato: “Chiudete la sepoltura, scavate lì vicino e non raccontate niente a nessuno”.
Ancora prima, nel XVII secolo, iniziarono a raccontarsi miracoli avvenuti accanto al tumulo di un fratello morto con fama di santità e sepolto nel cimitero dell'antica certosa di Parigi, luogo oggi occupato dai Jardins de Luxembourg. Il priore del monastero andò sul luogo e ordinò al defunto: “In nome della santa obbedienza, ti proibisco di operare miracoli”. Nicolas Diat conclude: “I fenomeni straordinari cessarono immediatamente”.