Vi siete già imbattuti in qualche articolo sul cosiddetto Christmas blues, o tristezza natalizia? Io sì e mi hanno infastidito. Il filone di questi scritti segue un copione quasi fisso. Eccolo:
Il Natale, infatti, è associato all’obbligo di celebrare specifici valori, in particolare essere felici, stare in famiglia e apparire al meglio di sé: questo può provocare in alcune persone attacchi d’ansia e comportamenti compulsivi. Il Natale, insomma, porta con sé una serie di aspettative e il fatto che queste non vengano soddisfatte, o lo siano solo in parte, può generare un forte senso di frustrazione, stati d’ansia e persino di depressione.
Si constata questa tristezza, o depressione, che insorge proprio nel momento che dovrebbe essere quello più felice dell'anno e poi seguono una serie di consigli per disinnescare il blues, la malinconia. Come? Atrofizzando l'anima, mandandola in letargo.
La tentazione di reagire alla tristezza spegnendo l'interruttore dell'io va proprio evitata. E' la scelta peggiore. Sarebbe come scegliere di spegnere l'auto perché si è accesa la spia della benzina. Guardiamo invece dritto in faccia questa amarezza, malinconia, tristezza, depressione che insorgono durante le feste di Natale. Sono spie, indicano qualcosa. Andiamo a fare benzina anziché spegnerci?
1 Tristezza come nostalgia
Siamo ancora vittime dell'idea che essere tristi sia negativo, nonostante la nostra stessa esperienza ci insegni qualcosa di diverso. Vi ricordate il film Inside Out? Sembra che tutto debba stare in piedi grazie a Gioia, ma in realtà l'essere umano ha bisogno anche di Tristezza per essere felice. Qui sulla terra la felicità per essere autentica deve essere fatta di una parte di mancanza.
La tristezza, proprio come la spia rossa della benzina, è un alleato non un nemico. E' la nostalgia che ci ricorda ciò che riempie davvero la nostra anima, e non c'è qui tutto e intero: il Paradiso.
Cos'è allora la tristezza che c'invade durante le feste di Natale? E perché arriva proprio quando tutte le voci attorno ci dicono che dovremmo essere allegri e spensierati?
La tristezza è il segnale che l'essere umano è fatto bene. Dovremmo ringraziarla. Perché disinnesca l'illusione beata e falsa delle pubblicità tutte fiocchi, luci e sorrisi. Non c'è proprio nulla su questa terra che ci renderà pienamente soddisfatti e in pace, neanche il quadretto natalizio idillico più perfetto e riuscito. Ogni esperienza autentica deve farci sentire la mancanza della gioia intera di cui abbiamo bisogno. La mancanza, la nostalgia e la tristezza indicano che siamo in viaggio. Si accende la spia rossa e ci ricorda che casa nostra è il Paradiso, e lo aspettiamo e ne sentiamo la mancanza.
Detto ciò, la tristezza non è una coperta da cui lasciarsi avvolgere, autocommiserandosi. E' amica se ci offre uno sguardo alternativo all'essere disillusi, mogi, brontoloni.
2 Natale è Dio che viene
Il primo suggerimento che ci offre lo sguardo della tristezza è una botta di onestà. Diciamocelo: siamo recidivi nel credere che per essere felici le cose devono andare come ce le siamo immaginate. Ci figuriamo una certa trama per il giorno di Natale e se la realtà tradisce quelle aspettative, allora ne desumiamo che le cose sono andate male e siamo sfortunati e infelici. Al contrario, è un bene che le cose non vadano come da progetto.
Il Natale è la festa che ci ricorda che la felicità è una sorpresa. Non è la festa scenografica di luci, regali e buoni sentimenti, è la festa di un Dio che viene sulla terra. Gesù nasce. Ed è come un ospite imprevisto che bussa alla porta: sono qui, mi fai entrare?
Di fronte a una presenza viva gli schemi saltano. Natale ci ricorda che la felicità è un incontro imprevisto che ci chiama in causa senza copioni. Non c'è un elenco programmatico da spuntare, bensì un tuffo nell'imprevisto da godersi.
I parenti e amici che avremo attorno si comporteranno tradendo le nostre aspettative, perfino risultandoci fastidiosi. Per fortuna. Significa che non sono il riflesso del nostro egoismo, sono parte della sorpresa complessiva che il mondo è: una novità continua che bussa alla porta.
3 Litigi? è la ginnastica della carità
Un altro grande e ripetitivo stereotipo che viene diffuso urbi et orbi nel periodo natalizio riguarda la noia infinita dei pranzi coi parenti e certe insopportabili chiacchierate o litigi.
La risposta più frequente e cinica a quest'esperienza che tutti facciamo è il vituperio della famiglia come istituzione: la famiglia è un nido di serpi, centrale nucleare di litigi e frustrazioni. Anche questa bugia va disinnescata. La famiglia è un putiferio, sì, non è affatto il regno della serenità. Ma questo è il suo punto di forza, è la palestra più coraggiosa dell'accoglienza. E qui entra in scena la zia Susan, evocata da G. K. Chesterton.
Chi è? Tutti abbiamo una zia Susan. E' il parente fastidioso.
Non so quante discussioni tra amici o familiari si siano scatenate anche questo Natale, cominciate con un parente che arriva furioso per lo sdegno e tira fuori che la zia Susan ha detto questo o quello; quando è più probabile che lei abbia detto qualcosa che l'uomo di logica avrebbe recepito in modo totalmente diverso. La zia Susan, come sappiamo, non appartiene ai pensatori di indiscussa lucidità e precisione, ma ha il diritto di essere giudicata per quel che ha detto, e non per quello che qualcun altro, infuriato, crede possa suonare vagamente simile a quel che lui ha capito.
A monte di un litigio c'è un dato positivo: l'altro è proprio altro. Le discussioni a tavola sono sgradevoli e ci lasciano l'amaro in bocca, ma solo perché le usiamo come valvola di sfogo per le nostre frustrazioni represse. La divergenza, a monte, indica solo che non sono seduto a tavola con dei cloni del mio ego. Non è scritto da nessuna parte, anzi è l'opposto del vero, che la famiglia felice è quella in cui non c'è nessuna fastidiosa zia Susan. Parafrasando Flaubert, la zia Susan sono io. Ciascuno di noi è un fastidio per l'altro ... cioè un mistero. In una famiglia felice non si va d'accordo, si tiene costantemente in esercizio l'impresa faticosissima dell'accoglienza. Sempre Chesterton:
Il cristiano deve mettere all'opera tutto il suo cervello per vedere la bontà nascosta nell'umanità; proprio come l'investigatore deve mettere all'opera tutto il suo cervello per vedere la cattiveria nascosta nell'umanità. C'è un modo di dire molto appetibile a proposito del «vedere del buono in tutti», come se fosse una cosa facile, che ciascuno riesce a fare senza alcuno sforzo. Così facendo non solo non si vede il bene ma non si vede proprio niente. Vedere il bene è vedere Dio e vedere Dio non accade casualmente; in un certo discorso particolarmente paradossale fu detto che era necessaria una certa purezza di cuore.
La carità non accade casualmente. L'altro, anche se è un parente stretto, è lontano mille miglia ed è una galassia sui generis. Incontrarlo davvero, magari mentre gli si passa una fetta di panettone, è un'impresa degna dell'epopea di Guerre Stellari. Siete pronti?