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Non si fa discernimento senza costante esame di coscienza. Ecco perché

PAPIEŻ FRANCISZEK
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 04/11/21
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Gli scandali suscitati dagli abusi di ecclesiastici pongono nuovamente in discussione il tema della direzione, e a cascata quelli del discernimento e della libertà delle persone. La chiave di volta che tiene in piedi questo delicato equilibrio sta nell’esame di coscienza così come lo ha illustrato Ignazio di Loyola.

Si fa presto a dire “discernimento”, ma per superare la muta barriera dell’approccio enciclopedico al tema – “è una parola”, si suol dire… – è utile affidarsi a qualche esperto conoscitore della vita dello spirito. 

Scandaloso smalto di abusi 

Non di rado, anche nei recenti resoconti sugli abusi (sessuali, di potere e di coscienza) in contesti ecclesiali si trova che sotto lo smalto del “discernimento” vengono propinate alle persone prepotenze sconvenienti o addirittura abominevoli sopraffazioni. Quando un confessore, ad esempio, usa le pagine più sublimi di Teresa d’Avila o di Giovanni della Croce per imbastire agli occhi di un/a penitente (e designata vittima) la giustificazione al proprio stupro, è un suo “discernimento” quello che impone. 

Siffatto tipo di “discernimento” è intimamente viziato da una duplice incongruenza: 

    Perinde ac cadaver” 

    La spiritualità ignaziana è però, insieme con altre omologhe moderne e antiche e forse a qualche titolo di preminenza rispetto alle stesse, un efficace antidoto al “dirigismo” clericale: se una certa vulgata (invalsa anche in contesti ecclesiali) vuole che Ignazio sia stato il campione dell’obbedienza «perinde ac cadaver» (con la docilità di un corpo morto), la nozione merita di essere smussata da un’opportuna contestualizzazione. È vero infatti che l’espressione si ritrova negli scritti ignaziani (per l’esattezza, al paragrafo 547 delle Costituzioni, ma è vero pure altro: 

    Non è la prima volta che su La Civiltà Cattolica si ripropongono le dense pagine di ascetica e mistica di Miguel Ángel Fiorito, meglio noto come storico padre spirituale di papa Francesco. Il gesuita argentino morto nel 2005 ricorda in nota la lettera di sant’Ignazio a un superiore di una casa di formazione (testo posteriore di qualche anno alla pubblicazione delle Costituzioni) : 

    Il fondatore della Compagnia, insomma, non s’illudeva di avere diritto di vita o di morte sulla società di vita apostolica di cui era stato strumento di fondazione… e molto meno ha invitato i suoi compagni e condiscepoli a ritenersi depositari di qualche particolare privilegio sulle coscienze: l’esperienza è invece preconizzata come la guida al perfezionamento delle istituzioni religiose («l’avvenimento – avrebbe detto secoli più tardi Emmanuel Mounier – sarà il nostro maestro interiore»). 

    Il “concerto dell’anima” e il bisogno dei riscontri esterni

    Questo “decentramento” del superiore, nella Compagnia, postula che ogni autorità vada concepita in vista dell’esperienza di Dio che ciascuna anima deve essere accompagnata a fare. Si parla volentieri di “anima” intendendo per sineddoche l’intera persona, e anzi proprio perché gli uomini non sono puri spiriti e la loro conoscenza non procede per intuizione intellettuale è indispensabile l’invito alla verifica costante e all’aggiornamento dell’istituzione in corso d’opera. 

    L’anima è teatro – nell’antropologia ignaziana – di un concerto ad almeno tre voci: 

      Il concerto di queste tre voci è costante, nella vita, ma l’educazione della prima – mediante gli strumenti forniti dalla natura stessa e dalla grazia – risulta determinante per favorire la ricezione della seconda e per “mettere in sordina” la terza. La pedagogia ignaziana ha dunque nella coscienza (così intesa) il proprio “campo di elezione”, ma per evitare che il tutto si riduca a un banale solipsismo avulso dalla realtà l’auscultazione interiore va sempre combinata con un serrato confronto con la realtà esterna. O come spiega padre Fiorito: 

      A meno che una persona non si sia disposta – corrispondendo in ciò a un invito divino – a una vita totalmente contemplativa (che Ignazio definisce “sublimior vocatio” – la chiamata più alta), essa è sempre coinvolta in quello che Jerónimo Nadal (tra i primi condiscepoli di Ignazio) chiamò “circolo preghiera-azione”, nel cui nodo stanno appunto conserti il piano psicologico/interiore e quello relazionale/esteriore del discernimento ignaziano. In una nota padre Fiorito ricorda la pure importante lezione di san Pietro Favre: 

      Se lo sbilanciamento intimistico è sempre possibile, nella vita spirituale, la dispersione naturalistica non lo è meno: s’intende con ciò la convinzione che, già in forza di una disposizione remota (stabilita una volta per tutte o rinnovata di tanto in tanto), la persona sia sempre disposta a esperire la presenza di Dio e a coglierne la volontà in ogni frangente della vita. Cosa che, proprio per il già ricordato “concerto interiore” risulta pericolosamente illusoria. Fiorito lo spiega bene: 

      La “discussione della coscienza” come via maestra del “terzo tempo”

      Certo che se tutta la vita dovesse passare in un incessante alternarsi di dolcissime consolazioni e di desolazioni prostranti in molti finirebbero presto al cimitero o al manicomio: la verità è che quelle dinamiche sono più forti ed evidenti in certe stagioni della vita (ad esempio quando si sboccia all’età adulta e si cerca la propria strada, o quando si devono aprire nuovi percorsi), mentre in altri periodi, virtualmente pure lunghi, prevale lo stato d’animo che Ignazio chiamò “terzo tempo”, 

      Un discorso complesso che a tratti sembra una laboriosa apologia di un’etica razionalista, ma Ignazio non ha mai in mente la “ragione pratica pura”, né mai pensa a una “natura pura”: padre Fiorito illustra allora il “teorema” raccontando di come si tenne Ignazio quando, venendo a sapere che l’imperatore aveva proposto al Papa (al quale l’idea sorrideva) padre Francesco Borgia per il cardinalato, per tre giorni si dedicò alla preghiera e alla discussione della coscienza per decidere la linea da tenere. Di per sé, infatti, il primo moto sarebbe stato di alzarsi per impedirlo, ma Ignazio temette che in questo agire si sarebbe potuto infiltrare qualche elemento disordinato («Che so io cosa voglia fare Dio nostro Signore?»): 

      Ed è questa la proposta, veramente “media” e al contempo ambiziosa, della spiritualità ignaziana: la sua preghiera preferita è cioè l’esame di coscienza, inteso come si è detto, corrispondente a «quello che evangelicamente viene chiamato “vigilanza”» (ivi, p. 292). È paradossale perché, mentre Ignazio e altri santi gesuiti raggiunsero alcuni dei più alti apici della vita mistica, rimasero sempre legati – lo sottolineava il padre De Guibert – a 

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