Tra i sovrabbondanti commenti e gli echi alle reazioni seguite al rapporto della CIASE, si è sviluppata una polemica attorno al segreto della confessione. L’ignoranza che si è manifestata con l’occasione è impressionante. Poiché essa è pure contagiosa, sarà meglio non trascurarla col pretesto di ignorarla – ma non ci facciamo troppe illusioni sull’efficacia vaccinale delle precisazioni e delle chiarificazioni.
Quel che scandalizza è l’idea che la confessione del peccato equivalga all’esserne esonerati agli occhi di Dio, e con ciò conferisca sottobanco l’impunità agli occhi degli uomini e della società, poiché il prete non prende conoscenza della colpa se non per cancellarla, e a quel punto non ha diritto di parlarne con alcuno. Se uno andasse a confessarsi soltanto per sgravarsi la coscienza di un male commesso, basterebbe andare a parlarne con un professionista della de-colpevolizzazione, il quale sicuramente non andrà poi a raccontare che sussiste quel che sarà stato pagato per sopprimere a mezzo delle sue arti o magie.
Solo che non è affatto così che vanno le cose. Il vocabolario utilizzato illustra decisamente bene la distorsione: si parla esclusivamente della confessione, mentre tale è appena un aspetto del sacramento più esattamente detto della riconciliazione, della penitenza, del perdono o della misericordia. La confessione è certamente necessaria, perché bisogna accusare da sé stessi – come nessun altro può fare – ciò di cui si richiede di essere perdonati. Ma questo è ben lungi dal bastare.
La contrizione e la “soddisfazione”
Il prete infatti non può, in virtù dei poteri che gli sono conferiti per delega dal suo vescovo, successore degli apostoli ai quali Cristo ha affidato il mandato di rimettere i peccati (Gv 20,21-23), dare l’assoluzione o “sciogliere” dai peccati… se non a due condizioni. Anzitutto quella che si chiama contrizione, cioè non il vago senso di colpa, ma un gagliardo pentimento di azioni, pensieri o omissioni che costituiscono delle deliberate mancanze all’amore di Dio e del prossimo. Questa presa di coscienza si fonda sul fatto che il Padre celeste non rigetta il figlio prodigo che, nella sua miseria, torna a lui riconoscendo i propri torti (Lc 15,17-24). Il rimorso deve stimolare la volontà di fare tutto il possibile per non ricadere nell’errore.
L’altro elemento essenziale alla liberazione è quello che il Catechismo della Chiesa Cattolica (al nº 1459) chiama “soddisfazione”. L’assoluzione che il prete – se constata che la contrizione è sincera – dà, infatti, «non rimedia a tutti i disordini che il peccato ha causato». Donde da una parte l’imposizione di penitenze che non sono punizioni e neppure (non necessariamente) delle privazioni, bensì degli esercizi (askesis, in greco, donde la parola moderna “ascesi”) destinati a fortificare la “salute spirituale” conformando a Cristo nel suo abbassamento fino al sacrificio della Croce.
L’assoluzione libera ma non rende irresponsabili
D’altro canto il sacramento esige che, davvero in tutta la misura del possibile, al male commesso si ripari. Non si può essere riconciliati con Dio e rinnovare una relazione d’amore con lui senza riconciliarsi anche con gli altri – da Lui non meno amati –, ai quali si è potuto fare del torto e che possono essere stati feriti (quanto e come nessuno lo sa a parte loro). Da tutto ciò deriva che la confessione non chiude in cassetta la colpa nel famoso segreto confessionale: il silenzio del confessore non nasconde alcunché, anzi rimette al peccatore liberato la responsabilità di esercitare la sua libertà restaurata dal perdono di Dio. Tocca al penitente assumersi le conseguenze del male che ha fatto, sforzandosi di ripararvi presso colui o coloro che ne restano le vittime – cosa che non implica, necessariamente, rendere il tutto pubblico strombazzandolo urbi et orbi.
In quanto strumento della misericordia liberatrice, il prete non si è potuto sostituire al peccatore penitente, non più di quanto Dio non lo trasformi in una marionetta. E nondimeno, in assenza di contrizione e di impegno alla “soddisfazione”, l’assoluzione non è possibile. Si esce allora dal quadro sacramentale e dunque dalla logica in cui il ministro non può che eclissarsi davanti alla libertà che egli ha ricevuto la missione di ristabilire. Potrebbe forse fare come se non avesse sentito nulla, in caso di una confidenza senza contrizione né volontà (cioè senza una reale capacità) di riparazione, laddove gli si esprimesse un malessere ma senza che il perdono venisse veramente sperato?
Non un distributore automatico di perdono
A maggior ragione si esclude – per un prete come per chiunque altro – che si resti impassibili quando degli abusi che costituiscono dei crimini vengono denunciati da una vittima o da un terzo (chiaramente che non li abbia commessi). Tutto ciò pone nondimeno alcuni serî problemi: bisogna anzitutto che gli atti reprensibili risultino reali. Per fare due esempi particolarmente spettacolari, trent’anni fa il cardinal Barbarin – all’epoca arcivescovo di Chicago – è stato accusato da un ex seminarista che finì per ritrattare dicendo di essere stato manipolato. Più recentemente, il cardinal Pell, allora arcivescovo di Sidney, è stato assolto all’unanimità dalla High Court australiana dopo essersi fatto più di un anno di prigione.
Le cose sono complicate dal fatto che la libertà restaurata dal sacramento della misericordia resta fallibile: non c’è bisogno di essere criminali per sperimentarlo. Anche il confessore lo sa, ed è per questo che non è un semplice distributore automatico di perdono. Come ogni sacramento, quello della misericordia richiede un dialogo, una partecipazione con delle ripercussioni esistenziali concrete. Anche nel caso estremo in cui non si possa garantire che la cosa abbia un seguito, perché il penitente è uno sconosciuto venuto di nascosto e che va subito via, spetta al prete – prima di dare l’assoluzione (se ritiene di poterlo e quindi doverlo fare) – sottolineare fermamente la gravità del peccato e tutto quanto richiede che vi si ponga riparazione e che da quel momento lo si eviti.
Quel che resta da imparare
La difficoltà si accresce perché in molti casi (non solo di abusi sessuali) ci si trova di fronte a delle volontà scisse, talvolta a delle personalità multiple che si sarebbe tentati di considerare patologiche. Sappiamo però che né il buon dottor Jekyll né alcun medico o psicologo possono guarire l’ignobile Mr. Hyde. Dunque non restano che la prevenzione e anzitutto l’informazione, in modo che – da una parte – la vigilanza non vasi nel sospetto paralizzante e – dall’altra – le strutture sociali non spingano alla negazione di crimini e sofferenze. Da questo punto di vista i cristiani, clero in testa, come del resto l’insieme dei mortali, hanno ancora molto da apprendere. Sebbene alcune forme di male siano flagranti, altre sono a priori inimmaginabili perché sfidano la coerenza razionale.
L’ingenuità non equivale all’innocenza quando, per paura di essere turbata, scivola nella sordità, nell’accecamento o nell’indifferenza fatalista. Deve però essere chiaro che, nei casi in cui la Chiesa è al contempo complice (per passività) e tradita, l’abolizione del “segreto della confessione” non farebbe parte dei rimedî perché il sacramento non conferisce l’impunità e, al contrario, esige la riparazione.
Ai nostri contemporanei – confessori inclusi – resta molto da scoprire sulle abominazioni e sulle contraddizioni di cui l’uomo è capace, ma resta moltissimo da riconoscere anche della realtà del sacramento della misericordia.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]