Introduzione
Sicuramente, quando domenica scorsa sono risuonate queste parole del Vangelo di san Marco in tutte le chiese del mondo, più di qualcuno si sarà sentito a disagio (tra questi, forse, non pochi sacerdoti a dovere predicare su un simile tema che tocca un nervo sempre scoperto e quindi sensibile, impopolare se non addirittura oggi non–politically correct), pochi avranno riflettuto che in ogni caso sempre il divorzio è un oggettivo fallimento (senza che questo venga sentito come un giudizio dal singolo), riguardo, quasi sicuramente la maggioranza si sarà fatta scivolare la frase autoconvincendosi che è solo un’espressione di una cultura e di una religiosità del passato e non più conforme al progresso e alla modernità. Quindi ponendo una bella etichetta e archiviando questa affermazione di Cristo, al limite, come un genere letterario, un ideale che può servire a qualcuno che non vive la vita reale ovvero vuole rovinarla agli altri.
Data la situazione e per evitare ogni tipo di confronto di tipo ideologico, in questa riflessione vorrei semplicemente proporre alcune considerazioni partendo e rimanendo alla Parola di Dio. Niente di originale in quanto riprendo solamente le conclusioni di alcuni esegeti e teologi[1] alla luce della tradizione e del magistero della Chiesa. Con la sola e unica preoccupazione che questa possa essere per l’eventuale lettore un’occasione per vivere pienamente la propria vita, senza nessun giudizio nei confronti di qualcuno, rifuggendo allo stesso tempo due possibili e reali tentazioni. La prima, quella di continuare in comportamenti che non realizzano il nostro essere fatti per amare (nel senso vero della parola), la seconda tentazione è quella dell’ipocrisia (pubbliche virtù e vizi segreti), del giudizio moralistico che non porta niente a nessuno, mai! Convinto che ciò che fa veramente la differenza in questo ambito è la fede, l’umiltà e l’onestà che mi aiutano ad andare oltre le mie e altrui fragilità e soprattutto l’importanza di essere profondamente convinti riguardo alla bontà e quindi alla obbligatorietà in sé (cosa differente dalla costrizione) di un determinato comportamento, scoprendo che non si tratta di reprimersi, vietandosi la felicità, ma esattamente l’opposto: non perdere qualcosa di immensamente più grande e più bello in quanto vero. Questo al di là del fatto che genitori, educatori, sacerdoti, religiosi/religiose poi lo vivano o meno, in quanto per tutti vale la possibilità di quanto leggiamo nel Vangelo: “Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Mt 23,3).
Senza dubbio ognuno di noi di fronte alla proposta esigente della parola di Dio (cf Eb 4,12-13), del suo disegno nato dall’amore per ciascuno, sarà tentato, come del resto i primi discepoli di lasciar perdere, ma per tutti siano parole di saggezza e di speranza quelle dell’apostolo Pietro: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: ‘Forse anche voi volete andarvene?’. Gli rispose Simon Pietro: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; …’” (Gv 6,66-68).
Da dove dobbiamo partire
Significativamente nel brano di Mc 10,2-16, gli interlocutori di Gesù riguardo alla liceità del divorzio, sono prima i farisei e poi gli stessi discepoli, quasi a voler ricordare a tutti e per ogni tempo che la questione, la sua comprensione e realizzazione, tocca tutti, nessuno può considerarsi escluso.
Altra cosa di rilievo è che il Signore non risponde alla domanda dei farisei – per metterlo alla prova – circa la liceità o meno di un marito di ripudiare la propria moglie. Paradossalmente, a pensarci un attimino, solo se avesse risposto “sì! È lecito” sarebbe stato considerato ‘moderno’, uno ‘al passo con i tempi’ e non un ingenuo o ottuso retrogrado. Invece, egli risponde con un’altra domanda, spingendoli a chiedersi e ad accogliere il disegno di Dio sulla sessualità, a domandarsi il suo senso e il suo significato, certo che se non si ha presente il disegno del creatore è impossibile rendersi conto dei nostri scarabocchi come creature. Nient’altro che l’occasione per fare emergere l’allergia degli uomini dei suoi tempi, che rimane per quelli dei tempi presenti, a tutto ciò che si presenta come definitivo e irrevocabile, ma allo stesso tempo cercando di far prendere atto a loro, come anche a noi oggi, che non avrebbero mai trovato appagamento in quel provvisorio attimo fuggente, frutto dei nostri sentimenti e desideri del e sul momento.
Quindi Gesù propone ai farisei, ma anche a noi, d’interrogarsi prima di tutto riguardo al perché l’essere umano si concretizza nella sua venuta all’essere, è creato da Dio, come maschio e femmina. Da questa domanda bisogna partire nella ricerca della verità oggettiva e questo per evitare ogni tipo di pericolo soggettivismo[2].
Il contesto storico
Per poter comprendere la posizione del Signore riguardo al divorzio, è necessario conoscere alcuni dati riguardanti il contesto religioso e culturale proprio dei suoi tempi. Il divorzio era una realtà anche per il popolo eletto e se si può discutere circa la sua origine, è certo che Mosè non ha mai ordinato il divorzio, ma è intervenuto prescrivendo l’atto di ripudio a tutela della donna. Ecco il testo: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa” (Dt 24, 1). Perciò, Mosè ha solo preso atto dell’esistenza del divorzio è ha stabilito una norma a favore della donna che solo con questo atto poteva rifarsi una vita e non essere lapidata come adultera. Interessante è il ricordare che cosa si poteva intendere per “vergognoso” tanto da giustificare il ripudio. Nella Mishnāh[3]i rabbini davano diverse giustificazioni per la concessione di detto documento: dalla condotta immorale della donna al fatto che avesse cucinato male. D’altra parte va anche detto che tutti erano coscienti che il divorzio era un male per le persone e per la società come non lasciano dubbio le seguenti affermazioni del profeta Malachia (V sec. a. C.), a tutti note anche al tempo di Gesù, che stigmatizzano violentemente il ripudio: “Un’altra cosa fate ancora; voi coprite di lacrime, di pianti e di sospiri l’altare del Signore, perché egli non guarda all’offerta, né la gradisce con benevolenza dalle vostre mani. E chiedete: Perché? Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentre essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d’Israele, …” (2, 13-16). Anche il Talmud[4] quando parla del ripudio arriva a qualificarlo come un male da evitare perché anche le pietre del Tempio piangono quando avviene.
Il disegno di Dio
Sessualità
Quindi proprio questa provocazione da parte dei farisei dà l’occasione al Figlio di Dio di ricordare a loro, e a tutti, il disegno creatore: l’essere umano si dà nella differenza fondamentale, biologica, tra sesso maschile e sesso femminile. Le altre differenze, pelle, nazione, cultura sono marginali e secondarie, in ogni caso sono successive. Biblicamente questa condizione di diversità e al tempo stesso di non completezza è indicata con il termine e il concetto di nudità, a voler rimarcare che non si è stati creati e non si nasce autosufficienti. Senza l’altro/a non ci si realizza perché non è possibile completarsi. Per questo i nostri progenitori all’inizio, al contrario di quanto avverrà dopo il peccato originale (cf Gn 3,7;10) non provavano vergogna (nel senso che non si sentivano dei falliti non la vivevano come una limitazione mortificante: cf Gn 2,25) L’uomo non sentiva la propria insufficienza, la propria natura bisognosa degli altri, come qualcosa di negativo da combattere e vincere. A ben vedere Dio ci ha fatti limitati, incompleti per essere in grado di amare. In questo senso ci ha creati veramente bene al fine di ‘dover’ andare verso gli altri, ed è proprio in questa limitatezza che esige di completarsi, che trova il suo fondamento nella natura sociale dell’essere umano: ognuno ha un ha un bisogno effettivo ed affettivo dell’altro/a e questo nei diversi ambiti e livelli come la famiglia, il lavoro, l’amicizia, il matrimonio. Nel racconto della creazione questa verità è confermata quando leggiamo che dopo ben sette volte Dio vide che quanto aveva creato era buono, dichiara che non è bene che l’uomo sia solo (cf Gn 2,18). Non è bene che l’uomo sia solo perché non si umanizza, non si realizza come uomo. Ecco il significato biblico della sessualità: immagine di quella diversità limitata che è una ricchezza in quanto occasione di scambiarci ciò che ciascuno ha ricevuto in dono (cf 1Cor 4,7). Del resto per fede sappiamo che Dio stesso pur essendo unico non è solitario nella Trinità delle persone divine in relazione tra loro in un rapporto d’intima comunione.
Genitalità
Quindi, la sessualità, come la cogliamo dalla Rivelazione, è compresa come ciò che ci spinge ad uscire da noi stessi verso gli altri per completarci donandoci e questo a diversi livelli e in diversi ambiti. Questa esigenza viene dalla diversità limitata con la quale veniamo al mondo, che richiede lo scambio dei differenti doni per completarci e così pienamente realizzarci.
In questo contesto della sessualità accolta e vissuta come vocazione ad andare verso gli altri, si colloca la genitalità che non deve essere confusa con la prima: Cristo ha vissuto la sua sessualità in quanto ha donato la sua vita, ma non ha esercitato la genitalità. La genitalità è un modo specifico e importantissimo, un dono prezioso di Dio, di realizzare la sessualità fra un uomo e una donna che si danno reciprocamente in un rapporto sponsale. Rapporto che presuppone, per essere vero, un impegno totale e definitivo tra loro, altrimenti il linguaggio d’amore della genitalità diventa bugiardo, falso, mistificatore. Da qui la conclusione: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito (verbo usato in greco come ‘passivo divino’: è Dio che li unisce) Quindi, il divorzio non rientra nel disegno di Dio, ma è uno dei nostri tanti scarabocchi. Allora la sfida non solo per i farisei, ma anche per i discepoli di ieri (cf Mc 10,10-12) e di oggi, è accogliere il disegno d’amore di Dio.
Nella prospettiva della Rivelazione, allora, la questione non è prima di tutto giuridica, non si tratta di una norma esterna creata dagli uomini (indissolubilità[5] o l’esistenza di una legge umana che permette il divorzio), ma è la realtà stessa dell’amore che per sua natura[6], intrinsecamente, è incondizionato, senza riserve e non può essere a tempo, tra un uomo e una donna (diversità che si completano in un amore aperto alla vita) che non sono più un io e un tu, ma un noi e quindi non possono che desiderare il bene dell’altro perché in questo è il loro bene! (questo significa che bisogna rivedere l’attuale idea di amore come sentimento che ad un certo finisce insieme con il desiderio …). Il vero amore, nel disegno di Dio, non possiede l’altro, ma fa di tutto perché l’altro sia felice. Questo è il disegno di Dio sull’amore tra un uomo e una donna. Solo rifacendoci a questo disegno possiamo avere la risposta su come viviamo la nostra sessualità e genitalità. Onestamente dobbiamo confrontarci con questo disegno e non con le ideologie del tempo che passa e che vede sempre l’egoismo dei più forti, anche per il solo fatto di essere nato prima, a imporsi sui diritti dei più deboli e soprattutto vuole sostituirsi al progetto di Dio (cf Gn 3,5).
I nostri scarabocchi
Dato che questo è il disegno di Dio, non dovrebbe essere difficile per ciascuno comprendere tutte le scelte e i comportamenti che non realizzano questo disegno, in quanto ‘cosificano’ e strumentalizzano la persona come mero oggetto di piacere. In questa prospettiva vanno compresi, così come fa il Catechismo della Chiesa Cattolica (cf Art. 6, nn. 2331-2400), il VI Comandamento e il passo di Mt 5,27-29: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna”. Tenendo ben presente che questa non è l’inferno, ma era l’immondezzaio di Gerusalemme, quindi l’espressione era usata dai Rabbini per ammonire le persone a non gettare via la propria vita con comportamenti contrari alla dignità della persona.
Quanto abbiamo fin qui visto dovrebbe aiutarci a distinguere tra amore, come donazione che ha le caratteristiche proprie della totalità e del per sempre, con i sentimentalismi, i desideri e le tante emozioni (meglio conosciuti oggi con le espressioni ‘io sento/io non sento) che in quanto tali sono legati a momenti e situazioni che inesorabilmente sono passeggeri e svaniscono più velocemente di quanto si possa credere[7]. Come ci ricorda il salmo, gli uomini con le loro emozioni: “… sono come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 82,5-6). Rimane un dato incontrovertibile e intangibile: Dio ci ha creati liberi e ciascuno di noi può scegliere e fare ciò che vuole, ma rimane altrettanto vero che non tutto ci realizza umanamente e che molte cose scelte in nome della libertà ci rendono di fatto dipendenti se non addirittura schiavi (cf Gal 5,13; 1 Pt 2,16; 2 Pt 2,19).
Non a caso Marco presenta i bambini alla fine della pericope (cf 10,13-16) con l’ammonimento di Gesù che: “… chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso” (10,17). È proprio vero che solo chi, come il bambino, dipende in tutto e per tutto dai genitori, può accogliere il disegno di Dio sull’amore umano con la fiducia che è certezza che quanto ha voluto è il vero bene e la nostra vera felicità, anche se è esigente e impossibile da realizzarsi con le nostre sole forze. Però nella fede sappiamo che ciò che è impossibile agli uomini si rende possibile con l’aiuto di Dio, perché nulla è impossibile a Dio in quanto non esclude mai nessuno dal suo amore (cf Mc 10,27; Mt 19,26; Lc 18,26). Al riguardo mi ritornano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II che suonano così vere: l’amore non si può insegnare, ma non c’è cosa più importante da imparare nella vita!
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Conclusione: dove siamo chiamati ad arrivare
Dobbiamo proprio chiedere con umiltà l’accoglienza propria dei bambini per poter imparare ad amare il disegno di Dio. In tutta la mia vita e soprattutto nei miei quasi trentasei anni di ministero sacerdotale, non ho visto mai nel campo dell’affettività e della genitalità cambiare comportamento per paura di chissà quale castigo da parte di Dio ovvero dei giudizi della gente, ma ho visto più di qualcuno cambiare perché ha sperimentato il non senso di che cosa faceva, sperimentando che stava sprecando qualcosa di bello e prezioso, soprattutto che c’era qualcosa di migliore e di unico, e con la grazia di Dio, con tanta umiltà e onestà, si è alzato per incontrare e trovare un Padre misericordioso che da sempre lo stava aspettando. Questo non è altro che il grande insegnamento della parabola del ‘Figliol prodigo’ che meglio dovrebbe essere denominata del ‘Padre misericordioso. “Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa” (Lc 15,17-24).
Indiscutibilmente, oggi come ai tempi di Gesù, il disegno di Dio si scontra con l’unica regola che sembra esistere nelle relazioni affettive, manifestazione di quel soggettivismo morale e giuridico che ci distingue, cioè semplicemente fare ciò che mi piace. Questo si traduce, confondendo sessualità e genitalità, che chiunque può fare sesso quando, come e con chi vuole, alla sola condizione che l’altro sia consenziente! La mentalità che s’impone attraverso i vari mezzi di comunicazione è che bisogna fare solo ciò che rende felice il singolo, che bisogna essere e fare tutto ciò che si vuole per essere liberi. Lo slogan di moda è: “se si vogliono bene!”. Nascondendo così che se è vero che possiamo fare tutto, ma non tutto ci realizza umanamente (cf Rm 1,24-32; 1 Cor 10,23), che la nostra sessualità/genitalità non è meramente fisica o biologica, ma essenzialmente umana. Siamo chiamati a viverla da uomini e non come gli animali irrazionali: gli esseri umani amandosi, si conoscono, si uniscono, procreano, mentre gli animali semplicemente si accoppiano e si riproducono per istinto e senza consapevolezza. Quindi, la sessualità non è un gioco e i genitali non sono dei giocattoli, ma sono un linguaggio d’amore con il suo ‘alfabeto’ e le sue regole che non possono essere ignorate, pena la sua perdita di significato. Un po’ come quando vediamo una persona parlare da sola: cosa pensiamo? Banalizzazione e riduzione della genitalità a livello meramente fisico e come fonte di piacere egoistico, fine a se stesso, e non in una relazione di vero amore oblativo, che si perde nell’altro/a.
Ovviamente più di qualcuno alla presentazione del progetto iniziale di Dio sulla sessualità, la genitalità, il matrimonio e la famiglia, che la Chiesa cattolica ha la mera missione di proporre annunciandolo con fedeltà, starà pensando che i suoi contenuti non sono al passo con i tempi, che oggi i giovani, e non solo, hanno un’altra mentalità ed un’altra visione del modo, della sessualità e dell’amore. Per non parlare delle obiezioni visti i tanti scandali di sacerdoti, religiosi/religiose. Però, prima di tutto, rimane aperta la risposta alla domanda: è migliore il disegno di Dio o piuttosto i nostri ripetuti scarabocchi? Allo stesso tempo se qualcosa è vera e giusta in sé, rimane valida anche se quel poveretto/a non la vive.
In secondo luogo, all’obiezione di una Chiesa che non è al passo con i tempi, si potrebbe rispondere allo stesso modo di Gilbert Keith Chesterton: la Chiesa non deve essere al passo con i tempi ma, al contrario, essa deve dettare il passo (nella misura in cui rimane fedele al ‘depositum fidei’ che ha ricevuto come amministratrice), deve gettare il seme in un tempo di oscurità e confusione ed attendere pazientemente che tutto questo un giorno fruttifichi. E ancora sottolineava come “…non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo”. Prima di tutto debbo permettere a questo seme di essere accolto nel mio cuore attraverso un’onestà di fondo che cerca sempre e con umiltà: “… tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil 4,8-9). Fermo restando che sempre: ” Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, si ripercuotono sull’uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d’agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa. […] È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et spes, 4; 44).
Allora il primo è più urgente compito della pastorale oggi, è quello di annunciare e testimoniare la bellezza del disegno creatore di Dio sulla sessualità e la genitalità, sull’affettività nel senso più nobile e alto, in una formazione delle coscienze che è vitale: esercizio della carità della verità (cf Ef 4,15). Poi, indiscutibilmente, c’è anche l’accoglienza, l’accompagnamento delle persone, nessuna esclusa per nessun motivo (cf Mc 10,27), con comprensione e saggezza che non significano condivisione, ma un camminare insieme nella realizzazione del disegno di Dio e non degli scarabocchi proposti dagli altri o pensati e desiderati da me.
Basilica Santuario di Santa Maria del Sasso –Bibbiena (Arezzo), 7 ottobre 2021, Memoria della b. Vergine Maria del Rosario