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Nessuno è buono, se non Dio solo

Heinrich Hofmann (1824-1911), Jésus et le jeune homme riche, 1889, Riverside Church, New York

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padre Martin Charcosset - pubblicato il 13/10/21
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Il Vangelo di questa 28ª domenica del Tempo Ordinario è quello del giovane ricco (Mc 10,17-30). Per padre Martin Charcosset, parroco di Écully, se la Parola di Dio ci invita da settimane a rinunciare ai nostri beni, è meno per essere “bravi” che per seguire Gesù lì dove Egli va: nessuno infatti è buono, nessuno è “bravo”, se non Dio solo.

Ci sono nel nostro vocabolario quotidiano parolette che impieghiamo senza neanche rendercene conto, in particolare un certo frasario di cortesia. Se vi dico “buongiorno” mentre fuori imperversa un temporale, voi potrete – a seconda del vostro umore – sia rimandarmi il “buongiorno” con l’intenzione di salutarmi sia farmi notare che il tempo è orribile e che l’espressione è male assortita… 

Allo stesso modo, se dite a vostra nonna che adorate il vostro cane, le vacanze estive o la cioccolata, ci sono discrete possibilità che quella vi riprenda gentilmente per ricordarvi che si adora soltanto Dio. Anche Gesù fa talvolta questo tipo di osservazioni leggermente destabilizzanti, prendendo in punta di vocabolario il saluto dell’uomo che viene a trovarlo: «Maestro buono, che devo avere per avere in eredità la vita eterna?» – «Perché mi chiami “buono”? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,17-30). 

Nella reazione di Gesù possiamo vedere una maniera un po’ vivace di mostrare che diffida delle lusinghe: “Maestro buono”… la formula è un po’ troppo “leccata” per essere onesta. Ci si può però anche vedere una mano tesa per il prosieguo: se solo Dio è buono, e posto che l’uomo sia sincero nel sottolineare la bontà di Gesù, non sarà che egli possa essere più di un grande maestro? Che sia il messia, l’inviato di Dio? 

L’insistenza di Gesù sul significato della parola “buono” assume ancora più senso qualche linea più sotto. Quando Gesù vede il grande desiderio che abita il cuore di quest’uomo gli propone una scelta radicale, quella di vendere tutto, di dar via ai poveri il denaro ricavato e di seguirlo: «Ma quello, a queste parole, divenne scuro in volto e se ne andò tutto triste, perché aveva molti beni». Dopo “buono”, ecco i “beni”. Noi non ci pensiamo a fondo, ma chiamiamo le cose di cui siamo proprietari con questa parola tanto potente: quel che possediamo sono dei “beni”! 

La parola rivela che invece di vedere in essi dei mezzi, dei servitori, noi li guardiamo come uno scopo, un fine, un ideale: bisogna ottenerli, e allora sì che la mia vita sarà buona. Se crediamo che i nostri possedimenti sono dei “beni”, questo è il segno – temo – che siano in realtà essi a possederci. E quando pensiamo ad essi come l’uomo del Vangelo la tristezza al pensiero di perderli può essere più forte della semplice gioia di poterne godere qui in terra. 

Da settimane, domenica dopo domenica, la Parola di Dio ci ripete che bisogna saper tagliare, lasciare, dare, abbandonare. Togliere da sé la causa dello scandalo, abbandonare il padre e la madre, la casa, i punti di riferimento, lasciare che la spada a doppio taglio agisca nella nostra vita. La settimana scorsa è stata terribile [per via del rapporto CIASE, N.d.R.]: tante vite spezzate da uomini insigniti della missione di portare l’Evangelo, e che hanno tradito insieme l’Evangelo e i bambini a loro affidati. 

Come con l’uomo ricco da lui incontrato, Gesù chiama la Chiesa non solo a predicare la virtù, ma anzitutto a seguirLo dovunque Egli vada, pronti a pagarne il prezzo che si presenterà. Forse questo significherà rinunciare a dei beni materiali, cosa che non ci fa mai piacere; ora però, Cristo non ci ha promesso il piacere, bensì la salvezza. Non c’è altro bene da desiderare che Cristo stesso: nessuno è buono, nessuno è bravo, se non Dio solo. E se per guadagnare questo bisogna perdere qualcuno dei beni di questo mondo, questo non deve provocare soltanto la nostra tristezza. 

Il Vangelo di questo giorno, sotto le apparenze della durezza, ha da offrirci una speranza, a noi che ne abbiamo tanto bisogno. Certo, la tristezza sembra aver vinto. C’è con un senso di fallimento che vediamo l’uomo ricco uscire di scena; i sui grandi beni – il testo li chiama così – sono troppo forti. Almeno per il momento… chissà che cosa è accaduto poi nella sua vita… 

Una vecchia tradizione collega il Vangelo di questa domenica con il racconto che san Marco fa più avanti, alla fine del capitolo 14, quando si narra dell’arresto di Gesù nell’Orto degli Ulivi. Mentre i discepoli abbandonano Gesù in mano ai soldati e scappano, un giovane uomo lo segue vestito di un drappo, e quando cercano di acciuffarlo quello scappa nudo dopo aver lasciato il lenzuolo. 

In realtà, il termine tradotto con “drappo” o “lenzuolo” è il medesimo che designa il sudario di Gesù: un lino, senza dubbio fatto di lino bianco e quindi di un certo valore e costo. Che quell’uomo sia il giovane ricco, finalmente convertito, che avrebbe obbedito all’ordine di dare via tutto – al momento non ha più che un lino, ultimo testimone della sua ricchezza, e sotto il quale è nudo – e di seguire Cristo nel momento della solitudine più grande? Niente permette di affermarlo, ma è una lettura molto suggestiva. Non siamo mai condannati senza appello alla tristezza. La chiamata alla conversione che Cristo ci fa ha bisogno di tempo per penetrare il nostro cuore. Possiamo disperare di noi stessi, ma Dio non dispera di noi, perché Lui – grazie a Dio – è veramente buono. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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