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Il frutto della preghiera? E’ fatto per essere mangiato

DON VACCHETTI
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Paola Belletti - pubblicato il 12/10/21
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Un'altra catechesi dal Terzo Capitolo Generale del Monastero WiFi; don Massimo Vacchetti parla dei frutti della preghiera.

Don Francesco Vacchetti è vicario per la Pastorale dello sport, turismo e tempo libero della Diocesi di Bologna. Ha conosciuto Costanza Miriano in una delle sue trasferte emiliane; per lei il sacerdote giusto al momento giusto, per lui una reazione più del tipo "maledetto il giorno che t'ho incontrato", assai bonariamente inteso. Ma Costanza era decisa: una delle catechesi del ricco programma del Terzo Capitolo generale del Monastero WiFi sarebbe stata sua.

O almeno lo sperava tanto e chi la conosce lo sa: possiede una dolcezza imperterrita nel puntare a ciò che le sembra giusto a cui, in molti casi, è difficile non soccombere. E così è stato: Don Massimo ha ceduto così ha potuto offrire a tutti i presenti e a chi, come me, ha seguito da remoto, una meditazione su quale sia il frutto della preghiera. (Quale sia il frutto o chi?)

Da cosa si parte per capire un tema, un fenomeno, persino una persona alle volte?

Dal nome, da come la si è battezzata. Perché lì, nella sua scaturigine prima, rivela le proprie caratteristiche distintive e permanenti: e così ha fatto Don Massimo per prepararsi a bere questo calice agrodolce al quale fino all'ultimo ha evitato di prepararsi, essendo un procrastinatore professionista. Non essendo scattata alcuna nuova restrizione, senza nessuna causa di forza maggiore a tendergli una mano, si è rassegnato: ha dunque chiesto al fratello agronomo di dirgli precisamente che cosa sia in natura un frutto.

Ed è stato propriamente così, per lui, per la sua vita e la sua vocazione sacerdotale. Si è mangiato un frutto e si è ritrovato seme di una nuova pianta.

Da studentessa universitaria ho vissuto a Bologna e il primo anno esattamente in Via Indipendenza (14 ragazze, dai 18 ai 23 anni, due bagni, sento ancora le risate che buttavamo per quegli stanzoni spogli e mal arredati) la via sulla quale affaccia, ci racconta il sacerdote, la parrocchia che frequentava da ragazzo Massimo Vacchetti. Questa chiesa parrocchiale, probabilmente quella dedicata a San Benedetto, a ridosso della Montagnola, gli consentiva una interessante scorciatoia; attraversandola per intero, dalla porta principale a quella laterale, si ritrovava più rapidamente e senza troppi ostacoli sotto il portone di casa sua.

In quel breve tragitto al coperto si è fatta strada la sua vocazione. Il fatto che sia diventato sacerdote "dipende da un uomo che ho visto pregare. Io lo vedevo sempre pregare", dichiara.

Una scorciatoia per il rientro a casa: e Dio lo ha preso in parola. Questa sia davvero la scorciatoia per il tuo rientro a casa...

Ma non è qui che Don Massimo ha messo l'accento; lo ha posto sul fatto che passando di lì solo per fare presto gli capitava di incontrare sempre il suo parroco in preghiera. Come faceva? Si chiedeva allora.

Pian piano, due parole qua, un saluto là, un sorriso e qualche breve conversazione: di fatto, legge così ora Don Massimo quel periodo, si nutriva di lui. Lo mangiava come un uccellino e, mangiando lui che era un frutto maturo, si prendeva il seme.

Per seme si intende anche, secondo il dizionario, tutto quanto la terra produce per il nutrimento degli esseri viventi. Ed è su questo piano che si muove spesso anche Gesù quando parla di seme, di frutti, di alberi, di terreno buono o sassoso.

Gesù ha scelto quelli e proprio loro perché andassero e portassero molto frutto.

C'è una questione anche di tempismo, per quanto riguarda il frutto: va mangiato quando è maturo, altrimenti marcisce.

Per Don Massimo è stato così: vedendo quell'uomo di preghiera, quell'uomo che era quasi tutto preghiera, si è accorto che iniziava a desiderare essere come lui perché era felice.

Come si fa a dare frutto? Così spiega Don Massimo, che ora parafraso: osserviamo la pianta. Per caso si impegna intenzionalmente allo scopo? No, non è uno sforzo della pianta a generare il frutto ma è l'effetto del legame tra il ramo e la pianta a renderlo possibile; di una potenza certa (lo vediamo dagli esiti: i frutti) non percepibile immediatamente da noi ma che sappiamo fluire dall'una nell'altro.

Ci basti essere tralci, dunque, perché se siamo innestati nella Vite allora la potenza vivificante che lasceremo passare in noi arriverà fino a fruttificare. E non si dirà che il tralcio è il padrone o il creatore del frutto; si dirà piuttosto che quella vite era piena di grappoli, carica al punto da implorare la vendemmia.

Ad un certo punto la natura con le sue leggi ci risulterà insufficiente a raccontare cosa succede nel nostro cuore; occorre passare al piano della vita spirituale. Per poi forse accorgersi, quando siamo un po' più maturi (e di nuovo ci tocca usare quell'immagine, perché si sa che il trasumanar è cosa ardua da significar per verba), che è il mondo dello spirito a spiegare l'altro, quello naturale. Nella vita interiore la potenza che dà la vita e rende possibile il frutto si chiama Spirito Santo.

E' lo Spirito che agisce, e ciò che nasce dunque dalla preghiera è opera dello Spirito.

Il Padre è sempre pronto a donarci il Suo spirito, per questo la qualità fondamentale della preghiera è che sia fatta, che sia detta e la preghiera peggiore è quella che non viene detta. Non significa dare il via allo spontaneismo e all'espressività più sentimentale, vuol dire piuttosto aprire i vasi linfatici che già ci legano al fusto e alle radici dello Spirito. Si tratta di essere ciò che dal Battesimo siamo diventati: figli di Dio.

La preghiera cristiana come ci ha insegnato Gesù è un atto di confidenza, quello dei figli con il loro papà. Ai discepoli che chiedono al loro Maestro di insegnar loro a pregare risponde con il Padre nostro.

Gesù insegnaci a pregare

Non esiste atto di comunione più grande e necessario dell'Eucarestia, la messa è la più grande delle preghiere; in essa la preghiera eucaristica comincia con "Padre, veramente Santo."

Nel parlare con Dio Padre, nell'entrare in una relazione autentica con Lui nella mia ingenua e maldestra distrazione, se solo sono reso attento per un istante, per un rapido bagliore io scopro che questa parola mi restituisce la coscienza di essere figlio. Non pronuncio solo una parola rivolta ad Altri, ma mentre dico Padre regalo a me stesso la coscienza di essere figlio.

Il primo frutto della preghiera è questa coscienza. La figliolanza. Che non è opera mia ma dello Spirito che in me grida Abbà, Padre.

Ci siamo abituati, in questi ultimi anni, a rilanciare tra le tante emergenza quella tragica dell'assenza di padri; ma non mancano solo i padri, dice don Massimo, sono anche i figli che mancano poiché non c'è più la coscienza di essere figli.

Dalla preghiera maturano altri due frutti, la Chiesa, noi popolo redento e la coscienza del dolore altrui, la sofferenza del fratello che ha bisogno di salvezza, che leggiamo dentro il legame con il nostro comune Padre. Per questi due approfondimenti, occorre ancora di più guardare e ascoltare direttamente le parole di Don Massimo.

La sintesi di tutto però non possiamo tacerla; il frutto, il solo vero frutto compiuto, carico, maturo di qua alla fine dei tempi è uno e uno solo.

Se ne è accorto contemplando, per l'ennesima volta ma quasi come fosse la prima, le parole di Elisabetta nell'incontro con Maria SS incinta tre mesi:

Il frutto è Gesù cristo, il Figlio dato a noi perché diventiamo figli. Il frutto della preghiera è Cristo che ci è dato, perennemente maturo ed edibile perché diventiamo creature nuove.

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