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Sono viva e ho la sindrome di Down, la legge sull’aborto mi discrimina

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Paola Belletti - pubblicato il 28/09/21
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Heidi Crowter è affetta da trisomia 21. E' nata, è amata, sta vivendo in pienezza la propria esistenza. Con coraggio ha fatto causa al governo del Regno Unito perché la legge che regola l'aborto, l'Abortion Act del 1967, è discriminatoria nei confronti di chi ha la sua stessa condizione genetica. Ha perso la battaglia, per ora, ma ha mostrato a tutti che questo è un fronte caldissimo in cui si continuerà a combattere.

Heidi ha 26 anni, è sposata, lavora, è felice. Non è d'accordo, però, che nel suo paese il governo consenta che persone come lei, ovvero con trisomia 21, possano essere soppresse oltre la 24sima settimana di gestazione. Nella sua presentazione su Facebook si definisce attivista per l'uguaglianza dei bambini fin dall'utero materno.

Una battaglia coraggiosa, quella che la giovane ha ingaggiato intentando causa direttamente al governo del Regno Unito.

Lo ha fatto insieme a Màire Lea-Wilson, mamma di Aidan, anche lui nato (questa è la notizia vera: in UK 9 donne su 10 con diagnosi prenatale di sindrome di Down abortiscono) con la stessa condizione cromosomica.

Hanno anche aperto una raccolta fondi per far fronte alle consistenti spese legali del processo: che però si è infranto contro la sentenza dell'Alta Corte di Londra e il suo complicato, verboso rispetto e tentativo di bilanciamento dei diritti della donna e diritti del concepito. Domanda da profana esperta: in quale maniera il bambino terminato a ridosso del parto vedrà rispettati o almeno in parte tenuti in considerazione i suoi diritti?

Battaglia persa, titolava qualche giorno fa anche Vanity Fair. Ma è davvero tutto finito? Non è già una cosa enorme che una donna, secondo il legislatore "gravemente handicappata" abbia intentato causa contro il governo per, almeno, calmierare la spietatezza di una normativa tanto barbara? In realtà l'impianto argomentativo dell'accusa poggia sul fatto che, per le persone già nate con sindrome di Down, quella legge è fonte di discriminazione. Heidi lo dice apertamente: sapere che nel mio paese la mia condizione cromosomica è ritenuta motivo sufficiente per non essere accolti mi fa sentire discriminata.

Nella pagina dedicata alla causa lo spiega:

Secondo Heidi questo equivale a leggere scritto su carta intestata del Regno che la sua vita è meno preziosa di quella altrui e per lei non è affatto giusto. Siete d'accordo? Chiede sulla pagina dalla quale è ancora possibile sostenere la sua battaglia. Se sì, allora aiutatemi.

Heidi e Marie Lea Wilson,

Bisognerebbe ricordarlo al Santo Padre che, giustappunto due giorni fa coi partecipanti in udienza plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, ha usato espressioni sbilanciate, forti, impossibili da tradurre in morbide e rassicuranti perifrasi da mediatore culturale o consulente delle risorse umane. Il Papa è durissimo e proprio perché difende la verità della persona, sempre. Parla di omicidio, di rifiuto, di cultura dello scarto, di sicari su commissione pagati per far fuori qualcuno che ci rovina i piani.

Ha ragione Heidi a riportare la faccenda dell'aborto al livello che gli compete: quello comunitario. Siamo noi, è la società che, secondo diversi gradi di responsabilità, esercita il diritto perverso (che è fondato solo sulla forza) a respingere alcuni e ad accogliere altri.

Ha ragione Heidi a parlare a nome suo e di tutti, nati e non. Ha torto la legge, hanno torto i giudici a battere in ritirata sospingendo la vita nel nascituro nel ristretto margine della volontà individuale, gravando la donna che si sottopone all'interruzione di gravidanza di una solitudine disonesta. Perché non viene solo interrotto il processo biologico della gravidanza ma ciò cui esso è finalizzato, il figlio. E quel figlio mancherà per sempre.

Non è giusto, non è solo affare suo. Non dovremmo lasciarla così tanto sola, una donna incinta. Non dovrebbe arrivare dal ginecologo con un manuale mandato a memoria di quanto sia terribile allevare un figlio con disabilità e su quanto la vita del figlio, e la sua, diverrebbero di pessima qualità. Farlo nascere è egoismo e crudeltà, si legge spesso e malvolentieri su qualsiasi social.

Heidi non chiedeva nemmeno di ridurre la libertà di accesso all' interruzione di gravidanza; si è fermata alla richiesta di trattare i bambini diagnosticati come gravemente handicappati almeno come gli altri. L'aborto non sia esercitato oltre le 24 settimane; non è accettabile uccidere un bambino pronto a nascere, perché questo consente la normativa, solo perché portatore di handicap. E' partita dall'esito che ancora tutti siamo in grado di riconoscere come mostruoso e quello vuole fermare: uccidere un bambino che sta per nascere fa orrore istintivamente ancora a chiunque sia dotato di un livello minimo di umanità.

I giudici che hanno firmato la sentenza hanno spiegato come gli argomenti utilizzati e le questioni sollevate siano tanto, troppo sensibili.

Inoltre, aggiungono, occorrerà lasciar fare al progresso biotecnologico: ora purtroppo certe patologie e malformazioni si intercettano in fasi ancora sconvenientemente avanzate della gravidanza. Tempo al tempo, vedrete che potremo stanarli più precocemente e così consentire aborti meno cruenti e meno turbativi di tutte le sensibilità coinvolte (esclusa quella del nascituro, naturalmente).

Inoltre ci sono famiglie in grado di accogliere un bimbo disabile con positività altre che invece non se la sentono. Verissimo: non esistono dunque altre vie? Aiuto alle famiglie (già non vessarle durante la gravidanza sarebbe di aiuto), possibilità di adozione? No meglio ritrarsi tutti turbati da temi tanto, troppo sensibili e controversi.

Ora, ventiquattro settimane è oltre la metà della durata di una gravidanza normale; chi è incinta o lo è stata da non troppo tempo ha un'esperienza vivissima di cosa significhi un bimbo a quell'età gestazionale. Ci tiene sveglie la notte per le capriole che fa, risponde ai buffetti che gli mandiamo da questo lato della pancia, ha il singhiozzo, si gira, dorme. All'ecografia è perfettamente riconoscibile, già si impara il suo viso, la forma del naso, qualche mossa buffa che potrebbe riservarci durante l'esame di controllo. Già si azzardano le somiglianze.

Ventiquattro settimane è un'enormità. Si può incorrere in un parto prematuro in quella fase; ci sono feti che sopravvivono, sebbene raramente, a quell'età. Si tratta di grandi prematuri, quei piccolissimi bimbi guerrieri che in tante storie ci inteneriscono e ci invitano a sperare e a sostenerli, così, almeno con un like.

Gli aborti a 24 settimane avvengono per induzione del travaglio, stimolando l'utero a contrarsi anzitempo e confidando che il bambino, una volta espulso, non sopravviva. Immaginate cosa debba vivere una madre in quella situazione?

Non si può infatti entrare nell'utero e sfilare un bimbo tanto grande come si fa in epoche più precoci. (A questo proposito di nuovo consigliamo la visione del film Unplanned: lì l'aborto che svela la verità alla protagonista, Abby Johnson, è a un bimbo di 13 settimane. Che fugge, si ritrae, cerca di scappare dall'aspiratore ma ne viene smembrato e risucchiato).

Heidi ha perso la causa, è vero. Ne è molto rattristata ma non ha proprio intenzione di gettare la spugna.

Ha perso la causa ma, signori, ha portato un governo sul banco degli imputati.

Non sarà una guerra lampo, questa, ma di trincea; non sarà un risultato definitivo quando e se dovesse riuscire a ridurre il termine per l'aborto legale a "sole" 24 settimane, però intanto ha iniziato.

Dall'entusiasmo col quale le persone la sostengono e dalle foto con le quali inondano i suoi profili accompagnandole con parole di gratitudine e incoraggiamento, forse, c'è di che ben sperare.

Che non abbia imboccato la strada giusta, Heidi? quella che intende compiere a ritroso, un po' per volta, i passi che la cultura dell'aborto e dell'autodeterminazione ha compiuto nell'altra direzione?

In fondo le leggi per l'aborto legale di Stato sono sempre passate come forme pietose e assistenziali per casi estremi. Sono stati il tempo e la mentalità che da esse ha tratto forza ad allargarne l'uso fino a trasformarle, come ha detto il Santo Padre, in abitudine.

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