A un anno dall'aborto spontaneo del suo terzo figlio, Chrissy Teigen, moglie di John Legend con cui ha due figli, si guarda allo specchio e cede alla negatività su Instagram, raccontando il viaggio di tante donne che spesso viene archiviato in fretta dietro a quei "ci riproverai" o "non era destino".
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Quello che a me dispiace di più, oltre al dolore di questa donna che mi fa male solo immaginare, è la legittimazione scritta a caratteri cubitali su tutti i giornali che l'aborto fa male solo se spontaneo.
Si soffre perché quel bambino lo si voleva, come quando ti toglievano il lecca lecca a cinque anni. Si sta male perché qualcuno c'era e ora non c'è più. E allora va bene stare male e parlarne e piangere. Invece se l'aborto non è solo un caso naturale e sfortunato, se è voluto, cercato, pianificato allora la narrazione cambia. La parola dolore è messa nei titoli di coda. E nemmeno sempre. Al suo posto c'è la scelta, ci sono i diritti, la libertà, il rispetto, il sollievo che, anche quando non sono prese a cuor leggero (e ci mancherebbe, dico io), rendono quell'aborto "diverso".
Ma dove sta la differenza? Forse la nostra volontà rende quella vita più vita? Dipende da noi e dal nostro stato d'animo il fatto che quello sia riconosciuto come essere vivente? Perché se fosse così io vi assicuro che avrei potuto commettere omicidi molto più liberatori di colleghi che mi smollano i loro lavori, marito quando lascia le scarpe in salotto, amici che prendono e non ringraziano. Davvero. Per molto meno. Però la vita non dipende da noi.
E la gioia di una nascita, come il dolore di una perdita, ce lo ricordano: quel qualcosa (o qualcuno) c'era e nei nostri cuori, volenti o nolenti, pronti o no, desiderosi o meno, ci resterà per sempre. Alle donne però raccontiamola giusta. Certi vuoti pesano. Ed è giusto dirlo.