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Ecco perché la fede c’entra con i vaccini anti Covid

NOWE OBOSTRZENIA W KOŚCIELE
Giovanni Marcotullio - pubblicato il 21/09/21
La guerra senza quartiere tra vaccinisti e novax, che malauguratamente appesta la società e i social più dello stesso Covid, sembra talvolta supporre un’adesione personale alla causa conforme a quella propria (ed esclusiva) dell’atto di fede. D’altro canto, certamente c’è un intimo legame tra la fede cristiana e quell’“atto d’amore” che è sottoporsi a un vaccino. Ne ragioniamo insieme rispondendo a una lettrice.

Tempo fa una lettrice ci scrisse: 

Abbiamo ringraziato subito la lettrice per le sue osservazioni, che ci permettevano di chiarire (anche a noi stessi) un punto importante. Visto che domande come la sua, anche meno ben tornite, serpeggiano attorno a noi (e probabilmente anche dentro di noi), riteniamo che valga la pena approfondire e ampliare la risposta. La signora diceva di frequentare la nostra pagina per “riflettere sulle cose dell'anima”, cosa che ci pare molto bella e per cui le siamo grati. 

A tale proposito, anzitutto, non cessiamo di interrogarci su quanto l'Apostolo scrisse ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rom 12,1). 

Più spesso di quanto sarebbe opportuno, in certe omelie si sottolinea che «la contrapposizione fra anima e corpo è un’invenzione del platonismo, mentre nell’ebraico biblico “nephesh” (diciamo “anima”) e “basar” (diciamo “corpo”) sono come sfumature diverse dell’umanità». La cosa non è del tutto falsa, però il “platonismo” (ma diciamo pure il pitagorismo e i culti misterici di ascendenza egizia e orientale) avevano permeato il tessuto ebraico ben prima dell’era cristiana, e sarebbe relativamente lungo l’elenco di testi scritturistici a sostegno di ciò, né si vede come si potrebbe pretendere di avere una Rivelazione “più pura” prescindendo da quei contributi. A mo’ di unico esempio ci permettiamo qui di rimandare alle espressioni contenute nel Salmo 41 (42), quali: 

che torna nel testo per ben tre volte. In ebraico si legge “halày naphshî” (cioè “sopra di me la mia anima”) e in greco “pròs emautòn hè psyché mou” (cioè “verso me stesso l’anima mia”): in ogni caso l’anima è sufficientemente distinta dal “me” da lasciare spazio a qualcosa, del “sé”, che non sia l’“anima” e che sia invece “altro”. Chiaramente, né questo testo da solo né tutti gli altri che si potrebbero invocare per bilanciare la vulgata dell’omelia-base basterebbero a contestare l’incontestabile, e cioè che nella rivelazione giudaico-cristiana il corpo non è mai stato “il carcere dell’anima”: in tal senso è vero che “basar” significa piuttosto “carne animata” e “nèphesh” piuttosto “anima incarnata”. 

Ecco il punto: nella concezione giudaico-cristiana c’è, tra l’anima e il corpo, una specie di “communicatio idiomatum”. L’espressione è ricalcata dalla dogmatica cristologica e di per sé significa “comunicazione delle peculiarità”: in antropologia cristiana significa che da sempre l’anima “somatizza” e che per sempre il corpo ha un suo psichismo. Per questo giustamente riteniamo che i peccati commessi col corpo siano commessi anche dall’anima, e che questa ne sia insudiciata… e viceversa che le virtù esercitate dal corpo rendano salda e bella anche l’anima (o che viceversa i vizî dell’anima fiacchino e infragiliscano anche il corpo). La questione fondamentale, quella ineludibile, è proprio la morte, che pone il tema della scissione delle due realtà e della sopravvivenza di qualcosa dell’uomo a fronte della decomposizione di un qualcosa di lui. 

Ma perché questa digressione? Dicevamo di Paolo: il culto spirituale, fu scritto ai Romani, quello che non si ferma all'esteriorità, sarebbe l’offerta dei corpi! E com’è possibile questo? 

Agostino c'insegna che uno solo è l'amore, una la carità: non è una quella che ama il prossimo e un'altra quella che ama Dio, analogamente a come non esiste una “devozione dell'anima” e una “devozione del corpo”, cosa che tutti cogliamo bene quando si tratta di sottoporci a rigori ascetici. Lo spiegò bene in un’omelia per l’Ascensione, quando era ancora un giovane vescovo: 

Probabilmente per questo gli inviti del Papa a vaccinarsi si sono distinti da quelli di altri leader, pure moralmente stimati e apprezzati (come il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella): quest’ultimo ha infatti laicamente (quasi kantianamente) parlato di “dovere morale”, laddove Francesco ha battuto sul tasto dell’“atto di amore”: 

Il messaggio del Santo Padre ci ricorda che anche farsi il vaccino è un atto d'amore, verso sé stessi e verso il prossimo, e la lezione di Agostino ci ha già insegnato che questo amore non è un amore “altro”, diverso, da quello con cui amiamo Dio, anzi ne è il primo passo e il primo gradino. 

Certamente vaccinarsi non è, in sé e per sé, “culto spirituale”, ma riconoscere in questo atto umano un gesto d'amore è – eccome! – un “offrire il nostro corpo”, con candore di agnelli, per amore del prossimo e del Dio che lo ha fatto a sua immagine. Davvero, dunque, anche quando andiamo a vaccinarci possiamo, anzi dovremmo, «vivere la fede». 

Dobbiamo prendere atto di un’incresciosa contraddizione, che rischia di oscurare il misterioso splendore del paradosso cristiano: mentre il Papa invita al “gesto d’amore” fra le strade dilaga una guerra senza quartiere che talvolta giunge a seminare zizzania – in molti ne fanno la dolorosa esperienza – anche all’interno delle sedi lavorative e perfino delle famiglie. Allo scettico e al riluttante si affibbiano così le etichette di novax e di terrapiattista; all’aderente, magari entusiasta, quelle di collaborazionista e di idiota. Non poche persone hanno cessato rapporti o si sono viste estromettere da altre in forza della divergenza di opinione su questo tema, come se l’adesione alla campagna vaccinale comportasse un intimo coinvolgimento dell’intera persona – analogamente, per capirci, all’atto di fede teologale. 

Su questo bisogna essere quanto mai chiari: è ovvio che nell’assunzione di un qualsivoglia rimedio medico è insita una componente fiduciaria (“farmaco” in greco significa “veleno”, ma lo assumiamo perché abbiamo fiducia nel medico che ce lo prescrive come cura al male di cui, attualmente o potenzialmente, soffriamo), ma né la medicina è una scienza esatta né il medico gode di una qualsivoglia infallibilità. Al contrario, la Rivelazione divina è in sé stessa esattissima e il Medico che quali mistici farmaci ne offre i sacramenti, Cristo, la Verità in persona e non può né sbagliarsi né ingannare. La Fede (teologale) nel Dio di Gesù Cristo non può in alcun modo essere assimilata alla fiducia necessaria per accogliere nel proprio corpo un preparato disposto da medici (fallibili) per preservare le persone dal contagio di una malattia: nondimeno, e la genuina volontà di cura della comunità medico-scientifica riverbera la volontà di Dio per l’uomo («pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» Ger. 29,11), e la sincera adesione al piano vaccinale può riverberare la fiducia nell’azione anche mediata della divina Provvidenza. Per contro, non è possibile stabilire paralleli biunivoci in alcuna direzione: 

    La dialettica quotidiana è tuttavia tracimata ben oltre, dal momento che: 

      Possono sembrare esagerazioni in Italia, dove tutto sommato i novax più accaniti che si professano cattolici sono confinati in una modesta per quanto chiassosa bolla della blogosfera, ma la settimana scorsa sul blog di Julie Roys Sarah Einselen ha segnalato come Jackson Lahmeyer, un pastore dell’Oklahoma (nonché candidato politico) abbia promesso di firmare esenzioni vaccinali a chiunque faccia donazioni alla sua “chiesa”. E all’improvviso si fanno più perspicui anche per l’osservatore del Vecchio Mondo perché già a luglio i sacerdoti cattolici dell’arcidiocesi di New York siano stati “invitati” dal loro vescovo a non firmare esenzioni dagli obblighi vaccinali, dal momento che farlo significherebbe «agire in contraddizione con le direttive del Papa». 

      Il punto è che l’obbligo vaccinale è un passo estremo delle politiche sanitarie: anche la Santa Sede e altre amministrazioni ecclesiastiche, nei secoli scorsi, se ne sono fatte promotrici, ma le res novæ che hanno trasformato il mondo fornendo accesso di massa a istruzione e informazione esigono che ai nostri tempi esso sia veramente una extrema ratio. Difatti nessuno vorrebbe applicarlo: la politica perché, pilatescamente, spera di lucrare dei vantaggi elettorali e di lavarsi le mani dei costi umani; i cittadini perché rifuggono dall’idea di dover cedere importanti e inusitate quote di libertà individuale in cambio di una protezione neppure data per sicurissima. Anche la Santa Sede ha aderito al green pass, è vero, ma con due importanti spiragli per le eccezioni: 

        A parte questo, anche i vescovi USA hanno prudentemente evitato di appoggiare l’obbligo vaccinale, e pur incoraggiando la campagna vaccinale non hanno parlato di “dovere morale”. Questo atteggiamento, che a letture superficiali e disinformate potrebbe apparire “cerchiobottista”, significa invece la consapevolezza che un atto d’amore si può anche comandare, nella Chiesa, ma non imporre. O come scrisse Benedetto XVI nella Deus est caritas

        Se non fosse possibile trasgredire i comandamenti divini, anziché osservarli, sarebbe negata in radice ogni possibilità di peccato, e benché cattivi apologeti si appellino proprio al “libero arbitrio” per giustificare la propria ribellione al comandamento (in Paradiso tutti saranno perfettamente liberi, e proprio per questo nessuno avrà più un libero arbitrio capace di scegliere altro che il Bene) ciò che la Chiesa spera è invece che tutti si sentano interiormente motivati all’atto d’amore. Lo Stato vorrebbe poter fare lo stesso, per ragioni diverse a cui si è accennato, ma il problema radicale dell’etica kantiana è che il suo dovere morale è la pura legge priva della grazia. E basta farsi un giro sui social per trovarne conferma: senza la grazia non si adempie a un comandamento neanche dove se ne mostrino fulgidamente le ragioni; oppure se lo si adempie esteriormente lo si fa per trarne uno strumento di contrapposizione sociale e di polemica ecclesiale (a mo’ degli “splendida vitia” rimproverati dal solito Agostino ai pagani magnanimi). 

        Il punto è che se uno dice “la prima carità la devo a me stesso” non dice una cosa meno vera e meno giusta di “vaccinandomi proteggo anche gli altri”: il secondo ribatterebbe al primo che contro un virus attualmente non curabile altrimenti il vaccino è la carità maggiore che (salvo eccezioni clinicamente comprovate) ognuno può usare anzitutto a sé stesso, ma se questi evidenti principî esaurissero in sé tutta la morale, perché considereremmo eroico un medico, che per la natura stessa del suo mestiere espone sé stesso (e i suoi) a contrarre e diffondere malattie? O chi per questo biasimerebbe la professione medica? Passi per Madre Teresa, che ai suoi tempi sapeva molto più del Poverello, sulla lebbra, ma non dovremmo tornare a guardare Francesco tra i lebbrosi con ragionevole riprovazione? A che serve disporsi al bene comune se si mette in pericolo il proprio? 

        Quel fine conoscitore di Gustave Thibon che è l’amico Emiliano Fumaneri, mi faceva leggere proprio stamane questa pagina del filosofo contadino: 

        Fin troppo facilmente avremo pensato entrambi ai vaccini e agli schemi manichei di cui abbiamo qui provato a ragionare. Per questo gli ho chiesto come una riflessione tanto preziosa possa essere accettata “una volta per tutte”. E lui ha risposto con queste considerazioni, che mi sembrano difficilmente superabili: 

        Infine, speriamo a questo punto di non essere equivocati: giudichiamo temerario, perché contro l'evidenza della retta ragione, assumere posizioni schiettamente antivacciniste, ma non abbiamo mai dato addosso a chi, per motivi accuratamente soppesati, scelga di rimandare il proprio vaccino (e al contempo di assumere uno stile di vita tanto più prudente e riservato!). Siamo naturalmente contrari a ogni imposizione esterna da parte dei poteri forti, ma sappiamo anche che Cristo ci ha veramente liberati nel profondo e che, se siamo liberi dai vizi dell'anima e del corpo, niente ci può davvero assoggettare. Non ci si deve vaccinare perché ce lo impone qualcuno, dunque, ma perché è un atto di carità farlo – e la carità ci è stata comandata da Cristo, al quale tutto vogliamo dare perché Egli per primo si diede tutto per tutti e per ciascuno, senza nulla trattenere.

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