Si fa fatica a trovare uno spiraglio di luce nella storia della giovanissima Kathleen Osborne, mamma inglese di 3 figli e con un tumore terminale. Sarebbe il caso perfetto per parlare di accanimento del destino o crudeltà del caso, ma allora perché l'umano risponde con il sacrificio ai colpi brutali della realtà?
Non ha una vita lunga davanti a sé, Kathleen Osborne ha solo 28 anni e le resta poco tempo in compagnia dei suoi figli. Il tumore che l'ha colpita per la prima volta quando aveva 11 anni è tornato in forma molto aggressiva contemporaneamente alla scoperta della sua terza gravidanza nel 2020. Il sacrificio che ha scelto per far nascere la sua bambina non le ha garantito nessuna carezza del destino, perché ora la malattia è in fase terminale.
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Il precipitare degli eventi sembra contraddire lo sforzo di questa donna di aggrapparsi al positivo della vita.
Nonostante le paure e lo scenario brutale, Aida-May è nata e ha trascorso qualche settimana nella Terapia Intensiva Neonatale per guadagnare peso e forze. Le foto più recenti inquadrano la piccola che reagisce sorridendo ai giochi di uno dei fratelli maggiori.
Kathleen sta trascorrendo il tempo che le è rimasto da vivere cercando di raccogliere memorie per i suoi figli, per quando lei non ci sarà più. Vuole lasciare loro dei frammenti di ricordi della vita felice trascorsa insieme. Ma sono più di ricordi. Ripercorrere in modo strettamente cronologico la biografia di mamma Osborne è drammatico, come detto in apertura verrebbe da notare un cinico accanimento del destino.
A 11 anni Kathleen scopre di avere un tumore osseo poco dopo aver perso il padre, morto anche lui per cancro. La chemioterapia e un primo intervento chirurgico le permetteno di guarire. Poi a 18 anni il primo grande amore, Katheleen si sposa giovanissima e diventa madre per la prima volta. L'uomo che ha accanto, però, si dimostra violento verso di lei e la tradisce. La relazione finisce nel peggiore dei modi. Nel 2016 trova un altro compagno da cui ha un secondo figlio e il tumore ritorna, ai polmoni. Chemio e intervento di asportazione parziale di un polmone si accompagnano a una rottura col compagno (anche lui la tradisce). Cercano di rimettere in piedi la loro relazione e nel 2020 la terza gravidanza si accompagna alla scoperta di un ritorno aggressivo per la terza volta del tumore, questa volta alla gamba. Il resto della storia è quello già raccontato prima: amputazione, nascita della bimba e consapevolezza di essere nella fase terminale, non più curabile, della malattia.
Dopo essere stata tradita così tante volte nella speranza, sia dalla malattia sia dagli affetti umani, oggi questa madre trascorre il poco tempo che le rimane raccogliendo ricordi belli per i suoi figli. Per loro salva dal naufragio della disperazione schegge impazzite di momenti di bene vissuti insieme, chiusa in un orizzonte capace di molte sfumature di cupo.
Mi farei tagliare tutte e due le mani per te, è una frase che si sente dire quando qualcuno vuole esprimere l'amore incondizionato verso un figlio, un innamorato, un amico. Si dice, appunto. Kathleen si è fatta amputare una gamba per non abortire sua figlia e non lo ha raccontato con le tinte rosa di un sacrificio facile da scegliere e sopportare in nome dell'amore.
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Ma perché l'ha fatto? Cosa le ha fatto scegliere questo sacrificio? Non c'è nessun appiglio religioso nella storia di questa giovane mamma, qualcosa che possa far dire: "La sua fede l'ha accompagnata nel discernimento e ha detto no all'aborto". Molto poteva portarla alla scelta opposta: dopo tante batoste umane e di salute, perché mutilarsi? Perché non anteporre il proprio benessere per una volta? In base a cosa dare fiducia alla vita una volta di più?
Siamo tutti vittime delle nostre stesse battaglie ideologiche. In relazione al tema scabroso dell'aborto c'è il copione già scritto per cui o sei tra i religiosi fissati con la vita o sei il progressista che difende il diritto della donna di autodeterminarsi. La realtà ci aiuta a fare piazza pulita di entrambe le categorie.
A Venezia è stato premiato un film che racconta la battaglia di una ragazza che si conquista l'aborto in un mondo ancora retrogrado che le vuole impedire di esercitare questo diritto. Secondo questa lettura lo sforzo femminile è sempre in una direzione aggressiva, un dolore vero e da sigillare a denti stretti nel cuore. Ed è un ritratto astratto e tanto quello della donna cristiana che sceglie la vita a testa bassa anche in circostanze difficili, tranquilla e senza incertezze perché abbracciata dalla Provvidenza.
La realtà è un posto più misterioso e interessante, di fronte a cui deporre qualsiasi catechismo ideologico. Accade che una giovane madre come Kathleen Osborne preferisca l'amputazione all'aborto, e lo faccia senza nessun presunto lavaggio del cervello motivato dalla fede religiosa e lo faccia a fronte di una breve vita che l'ha bastonata fin troppo, ripetutamente.
Valgono entrambe le domande. Perché le battaglie femministe non l'hanno raggiunta e convinta? Ma quindi si può dire sì alla vita anche in pessime condizioni e senza l'oppio della religione a edulcorare la pillola e guidare la scelta?
Scelta, gran bella parola. Riguarda un'anima e la sua libertà. Non è barrare una casella, dimostrare di appartenere a una corrente. Scegliere è lasciarsi disarmare da ciò che si ama, è sapersi vulnerabili e arrendersi ad abbracciare gli unici frammenti di esperienza che contraddicono la disperazione.