Protocolli e materiale, sono queste le parole (ben poco magiche) che hanno assillato qualunque famiglia in cui c'è almeno un figlio che oggi comincia o ricomincia la scuola. Regole e quaderni, orari e biro, autodichiarazioni e merende. Fatto tutto? Allora siamo pronti per un nuovo inizio. Uhm, forse no.
La comunicazione scolastica era stata molto chiara: "Il primo giorno di scuola gli studenti dovranno avere nello zaino solo astuccio e merenda". Facilissimo. Eppure non mi sono fidata e ho cominciato a dire a mio figlio: "Forse ti servirà anche...". E gli anche si sono moltiplicati. Andare a scuola con lo zaino vuoto è bello per lo studente e preoccupante per il genitore. Vorremmo essere sicuri di aver dato ai nostri figli tutto ciò che occorre. Ma cos'è poi che occorre davvero?
Astuccio e merenda, neanche un quaderno: era questo dettaglio che mi lasciava perplessa. Poi ho pensato che potevo leggerla come metafora educativa: la scuola è il tempo in cui il genitore ci mette la biro e l'insegnante ci mette il quaderno. Accompagno ogni giorno i miei figli ad avere una voce, ma è bello che possano conoscerla meglio seguendo le righe e i quadretti messi sul tavolo da altri. L'ansia però non tace: riusciranno a stare dentro i bordi? Ci sarà chi riuscirà a leggere la loro scrittura (e l'anima)?
Diciamolo. Avrei voluto lo zaino dei miei figli pieno di cose infilate dentro per quietare le mie preoccupazioni. Bisogna invece lasciarlo un po' vuoto, cioé accogliente e spazioso. Un'avventura non si affronta con troppi chili sulle spalle, il peso fiaccherebbe i piedi troppo presto.
Presa dalle mie ansie da primo giorno di scuola, è stato quasi immediato chiedermi: chissà che augurio di inizio anno scolastico avrà pensato Alessandro D'Avenia per i suoi studenti e lettori? La sua rubrica del lunedì sul Corriere è proprio un appello, uno sguardo che ci sottrae alla tentazione di spiegare e catalogare la realtà, invitandoci invece a darle il benvenuto.
E in occasione di questo ritorno sui banchi è stato davvero chirurgico, niente discorsi astratti ma una proposta molto operativa. D'Avenia invita a leggere integralmente in classe tutta la Commedia di Dante, un canto ogni due giorni ad alta voce come inizio della giornata (ci si impiega 10 minuti).
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Dante scrisse queste parole di suo pugno a Cangrande della Scala e sono la rivoluzione copernicana del suo poema. Chi legge il suo viaggio pensando che riguardi l'aldilà si perde l'essenziale. Il presente di ogni lettore è al centro della premura di Dante, perché è l'unico tempo in cui la libertà umana risponde alla chiamata di un destino che si mette a fuoco giorno per giorno. Il presente è la scuola che inizia ogni mattina, è la selva in cui Qualcuno ci chiama a seguire un sentiero. Anche Dante si ritrovò con uno zaino completamente vuoto nella selva. Non era pronto ad attraversare l'inferno, il purgatorio e il paradiso.
L'unica cosa che lo convinse a iniziare fu la certezza che dal cielo Maria gli aveva trovato dei compagni di viaggio. Nella vita reale il poeta era un esiliato senza casa, famiglia, speranze. Potremmo dire che non era sprovvisto solo di zaino, ma anche di penne, quaderni, diario. Doveva chiedere in prestito tutto a chi, di volta in volta, lo ospitava.
E questa può essere sia la premessa di una tragedia, sia di una commedia. Diventa commedia se il protagonista si libera del terrore del vuoto di domani e si fida delle briciole di bene che di giorno in giorno gli arrivano da Colui che move il sole e l'altre stelle. Questo respiro umano, quello di un uomo che impara a camminare su una strada non sua e guidato da presenze amiche, attraversa i canti di Dante anche senza saper fare la parafrasi e aver letto commenti critici approfonditi. E' un respiro nel senso più concreto del termine.
Si inizia inspirando, poi si espira. Per parlare si prende fiato, si accoglie qualcosa che viene da fuori. E il tempo in cui si pronuncia un endecasillabo è quello esatto di un nostro respiro, naturale e spontaneo. Non lento, non affrettato. Provare per credere.
La poesia è una risorsa salvavita, ossigeno puro. Prima di vivere l'esperienza più traumatica della sua vita (l'esilio), Dante scriveva prevalentemente in prosa. E lo faceva molto bene. Possiamo sintetizzare dicendo che era ottimo a raccontarsela, assomigliava a noi quando ci sfoghiamo sui social o con gli audio di Whatsapp. La prosa non ha interruzioni, può essere un flusso di coscienza infinito.
Quando la botta del dolore lo colpì duro, Dante abbandonò per sempre la prosa e cominciò a scrivere in poesia. Tecnicamente, si riempì di limiti: un verso può contenere solo 11 sillabe, nella terzina ci sono solo ed esclusivamente 3 versi e devono rispettare le rime. Perché? Perché aveva bisogno di respirare. La poesia non è più raccontarsela, correre a perdifiato per sfogarsi, urlare e avere l'ultima parola.
Scrivere in endecasillabi è ammettere che ogni 11 sillabe ci si ferma. Significa affidarsi a un tempo che ci salva dalle ossessioni egoistiche. La paura ci farebbe sempre precipitare in avanti, scappare dal presente che invece è uno stare. Ed è così che si sta nel mezzo del cammin di nostra vita: non si fugge, si sta alla fine di ogni giornata sospesi come la parte di riga vuota e bianca alla fine di ogni verso. La poesia è ricordarsi che è sommamente umano abitare il noto che costeggia il mistero dell'ignoto, stare in limine direbbe Montale.
La parte più coraggiosa dell'avventura è questo camminare in compagnia del limite, essere parte di una trama complessa - meravigliosa e dolorosa - che si scopre di passo in passo. Alla fine di ogni ora (e di ogni giorno) suona la campanella. Fermati, fidati di un tempo scandito da una Provvidenza che ti vuole pieno (di senso, di felicità, di domande, di vertigine) nel qui e ora, non solo a traguardo raggiunto.