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La vera storia di Sandokan: era spagnolo e vescovo

SANDOKAN
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Inma Alvarez - pubblicato il 08/09/21
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Le memorie di Carlos Cuarteroni, di Cadice, ispirarono a Emilio Salgari le avventure della “tigre della Malesia”, portate sullo schermo più di una volta. È un peccato che non sia accaduto lo stesso alla storia originale

L'indomabile Sandokan, la bellissima Marianna, il malvagio James Brooke, il fedele Yáñez, Labuan, Borneo, Malacca, i mari del Sud, i pirati malesi... Come ha fatto uno scrittore italiano che non aveva mai lasciato la sua terra a concepire un universo simile?

In realtà l'autore, Emilio Salgari, era un attento topo di biblioteca, nelle cui mani capitò un incredibile rapporto presentato a Papa Pio IX nel 1849. Quando lo lesse, credette sicuramente che gli fosse caduto un dono dal cielo tra le mani.

Il contenuto di quel rapporto, infatti, era davvero straordinario: erano le memorie di un marinaio spagnolo che dopo mille incredibili avventure era diventato frate trinitario e Prefetto Apostolico, e si dedicava a lottare contro il traffico di schiavi nel Borneo, a Sumatra e in Malesia.

Salgari tagliò, ridisegnò e colorò la storia adattandola al gusto dell'epoca, ispirato ai romanzi di Verne e Conrad. Le avventure di Sandokan rendono giustizia al loro vero protagonista, soprattutto perché allora di quel lontano angolo del mondo che era il Borneo si sapeva ben poco, finché Carlos Cuarteroni – così si chiamava il nostro eroe – non lo descrisse e ne elaborò delle rappresentazioni cartografiche per convincere la Santa Sede a sostenere la sua missione.

Grazie a una donna, la storica Alicia Castellanos, le peripezie di Cuarteroni hanno visto di recente la luce sotto forma di libro (Cuarteroni y los piratas malayos (1816-1880), ed. Silex)

SANDOKAN

Col mare nelle vene

Carlos era italiano da parte di padre, ma era nato nel porto franco di Cadice. All'epoca la Spagna, che aveva perso da poco quasi tutti i suoi possedimenti americani, cercava di dirigere il commercio verso le Filippine e l'Oceania.

La famiglia di Carlos, di commercianti, era devota cristiana: due dei suoi fratelli divennero sacerdoti, un altro missionario secolare. Anche se la passione per il mare aveva iniziato a impadronirsi di lui, il giovane non nascondeva la sua fede nei momenti difficili, come mostrano i suoi scritti, da quelli della giovinezza agli ultimi.

A 13 anni, come era prevedibile, si imbarcò per la sua prima traversata per mare, fino a Manila. Era così che i marinai ottenevano i loro titoli e facevano esperienza.

All'epoca non esistevano né il Canale di Suez né quello di Panama, e le navi a vapore stavano iniziando appena ad affermarsi. Quello fino alle Filippine era un viaggio pericoloso, costeggiando l'Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza e navigando per il pericoloso Oceano Indiano, alla mercè di tifoni e monsoni e venendo esposti a navi nemiche, porti ostili e pirati sanguinari.

Da buon marinaio, Cuarteroni annotava annotava tutto sul suo diario di bordo, abitudine che mantenne per tutta la vita e che oggi costituisce un'incredibile fonte di informazioni.

A caccia del tesoro

Il giovane capitano era un marinaio rispettato e con una brillante carriera professionale davanti a sé quando prese una decisione straordinaria: sbarcò, noleggiò una piccola imbarcazione, chiamata Martiri del Tonchino, e con un equipaggio di Filippini si mise a pescare perle e tartarughe, attività molto pericolosa ma anche assai redditizia.

Dovettero pensare che fosse pazzo, ma Cuarteroni aveva un piano: per 14 mesi, in realtà, quello che fece fu cercare il relitto di una nave, il Cristian, affondata lungo le coste di Labuan, con un tesoro si lingotti d'argento. E lo trovò!

A 26 anni, quindi, era immensamente ricco. Avrebbe potuto diventare un potente commerciante o anche un raja, come il suo amico James Brooke a Sarawat, o aspirare a una carica politica in Spagna.

C'era però qualcosa che gli bruciava l'anima da quando era arrivato in quelle terre: il traffico di schiavi. Gli risultava semplicemente insopportabile vedere come davanti agli occhi indolenti delle grandi potenze occidentali ogni giorno migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, venissero rapite e ridotte in schiavitù dai pirati mori malesi.

Nella sua memoria e nei suoi occhi erano impresse scene terribili di decapitazioni, maltrattamenti, saccheggi, bambini che singhiozzavano venendo strappati dalle madri, villaggi in fiamme... Molti schiavi erano nativi cristiani, e nessuno li proteggeva.

Dio me l'ha dato per una missione”

Fu così che elaborò un piano avventuroso: depositò il tesoro in una banca di Singapore, e per un paio d'anni, a rischio della sua vita, si dedicò a elaborare mappe del Borneo, far conoscere i suoi abitanti e documentare ciò che vi stava accadendo.

Con tutto quel bagaglio si presentò a Roma alla Congregazione De Propaganda Fide, deciso a diventare sacerdote e a fondare delle missioni nel Borneo, ponendo come garanzia il suo tesoro. Dopo vari anni di studio e formazione, con il sostegno vaticano, tornò nelle isole come Prefetto Apostolico per fondare tre missioni in quello che oggi è il sultanato del Brunei.

Apostolo del Borneo

È qui che la storia inizia a diventare davvero eroica. Anni e anni di lotte per mantenere le missioni, distrutte e sempre ricostruite, di salvezza degli schiavi, che venivano ricatturati che bisognava riscattare nuovamente, di pressioni e incomprensioni anche nella sua patria, che lo fecero sentire solo, e di viaggi pericolosi solcando i mari, come anche di intrighi e tradimenti per strappargli le missioni. Un tesoro e una vita consumati in una missione impossibile.

E tuttavia, come afferma Alicia Castellanos nella sua biografia, “le imprese e la bontà di Cuarteroni erano note in tutta la serie di isole tra la Cina e le Filippine. Era raro trovare un posto in cui non avessero sentito parlare del sacerdote e delle sue barche della libertà. […] Era diventato un angelo per i prigionieri cristiani, un inviato di Allah per gli schiavi musulmani e un pazzo per molti altri” (Carlos Cuarteroni y los piratas malayos. Alicia Castellanos, ed. Silex. P.189).

Cuarteroni inviò centinaia di lettere supplicando per i suoi fedeli. A lui ricorrevano le autorità ecclesiastiche e civili per chiedergli di riscattare cittadini sequestrati da pirati, navigava, difendeva e ricostruiva missione, affrontava naufragi, congiure e attacchi. Il tutto durò per due lunghi decenni.

Alla fine, malato, esaurito e rovinato, tornò a Cadice per morire accanto alla sua famiglia, che lo aveva sempre sostenuto in tutto. Diede tutto ciò che gli rimaneva alla Congregazione De Propaganda Fide per sostenere le missioni.

Le sue missioni vennero poi usurpate dagli Inglesi, e delle diocesi che diresse non resta alcuna traccia. Il suo nome non figura tra quelli dei grandi missionari del XIX secolo, e neanche la Spagna, poco abituata a sostenere i suoi figli più audaci, ricorda le sue imprese. Quasi due secoli dopo, la pirateria continua a fare stragi nel Borneo, e il traffico degli schiavi è ancora in piedi. Umanamente, è stato un fallimento.

In Carlos Cuarteroni si compie però ciò che si legge nel Vangelo:

“Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 19-21).

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