In quel tempo, Gesù uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei.
Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all'istante, la donna cominciò a servirli.
Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva.
Da molti uscivano demòni gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro.
Egli però disse: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato».
E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.
La grande lezione che ci viene dal vangelo di oggi riguarda le nostre priorità come credenti e come Chiesa. Come si può infatti entrare in una casa e rimanere indifferenti alla sofferenza che vi è dentro? Come ci si può sedere a tavola di una famiglia e ignorare che nella stanza accanto c’è a letto una persona che soffre? Capita spesso di cadere anche noi nella tentazione di prenderci la parte migliore e vincente della società, dimenticando che la nostra priorità devono averla i sofferenti. A tutti piace un gruppo giovani, ma a pochi piace perdere tempo nelle case degli anziani.
A tutti piacciono le famiglie felici, ma pochi si domandano cosa si potrebbe fare per tutte le ferite familiari che si consumano nel silenzio. A tutti piacciono i bambini vivaci che ti rallegrano la giornata, ma pochi sono disposti a prendersi a cuore bambini con disturbi o gravi forme di handicap. Dobbiamo imparare a “chinarci” come Gesù, ed essere Chiesa così. La guarigione non consiste per forza o prioritariamente nel togliere un problema, ma nel farlo smettere di essere una prigione.
C’è un servizio che può scaturire anche dalla sofferenza. Un apostolato che può essere fatto solo da chi soffre, da chi si trova su una cattedra scomoda che è quella della croce. C’è un rimettersi in piedi che coincide con una ripresa di libertà che nella solitudine a volte si perde. La vicinanza di Gesù guarisce/libera quella donna. Non dovremmo essere anche noi così? Non dovremmo anche noi “chinarci”, prendere per mano, accompagnare chiunque si sente prigioniero di quella febbre che è l’infelicità?
Ecco il miracolo: ridare agli altri la dignità di sentire di essere ancora utili, significativi, e non più scartati e senza senso.