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Si lavora per portare in Italia le 81 studentesse della Sapienza

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Annalisa Teggi - pubblicato il 30/08/21
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Sono bloccate in Afghanistan in seguito all'attentato a Kabul. Lavorando per organizzare un nuovo ponte aereo l'Università italiana ha ampliato il numero di studenti da accogliere e fanno parte del loro gruppo anche bambini.

L'Afghanistan esplode, raccontarlo è raccogliere i frammenti lasciati dalla deflagrazione delle bombe. Non si riesce a incollare i pezzi in un disegno sensato, ci sfugge molto ... anche nel senso che c'è un'umanità nella prova a cui non riusciamo a tendere la mano.

L'attentato dello scorso 26 agosto, rivendicato dall'Isis, non resterà una tragedia isolata. Proprio nelle ultime ore l'aeroporto di Kabul è stato oggetto di un altro attacco, questa volta non andato a segno grazie al sistema anti-missilistico:

L'aeroporto di Kabul è il luogo chiave della tragedia in corso, il punto in cui confluiscono tutti quelli che hanno ancora speranza di lasciare l'Afghanistan e in cui le organizzazioni umanitarie e militari tentano di coordinare soccorsi e vie di fuga.

Nell'attentato che ha suscitato la reazione immediata (e - diciamolo - alquanto paradossale anche agli occhi dei media americani) del Presidente Biden sono morte un centinaio di persone, più del doppio sono rimaste ferite ed è indefinito il numero di chi si è salvato ma, cancellata l'ipotesi della fuga, teme le ritorsioni dei Talebani. Tra questi ci sono 81 studentesse che avrebbero dovuto cominciare i corsi universitari alla Sapienza di Roma.

Proprio le donne restano il vulnus più esposto e preoccupante della tragedia afgana in corso. Ma è proprio il volto di una donna a mostrare al mondo intero l'aternativa alla censura del regime talebano.

Si accavalano notizie pessime, trapelano voci che bucano la cortina di silenzio imposta dal nuovo regime dai Talebani: tolte le voci femminili dalle radio e TV afghane, non più classi miste, sfregiati i manifesti coi volti di donna per le vie di Kabul. E il peggio forse non riesce ad arrivare a nessun canale di visibilità pubblica (violenze, matrimoni forzati, reclusioni).

A questo orizzonte cupo si contrappone nelle ultime ore una foto diventata virale, quella di una marine americana che culla un bimbo. Si spera che oltre al caso mediatico questa istantanea ci ridesti delle domande sull'identità umana che vogliamo difendere (in mezzo al disastro generale di cui siamo in parte responsabili).

"Amo il mio lavoro" queste sono le ultime parole scritte dal Sergente Nicole Gee, 23enne di Sacramento e in servizio in Afghanistan. E' morta all'aeroporto di Kabul in seguito all'attentato di giovedì scorso. La frase era la didascalia della foto che la inquadrava mentre cullava un bimbo, proprio all'aeroporto di Kabul. Prestava servizio per accompagnare gli afghani in fuga sui voli internazionali.

Sugli USA pesa una mole mastodontica di critiche in merito alla gestione dell'affare afghano, ma non pesa sulle spalle del singolo soldato. A tal proposito si parla già della Spoon River dei militari che hanno dato la vita per la missione afghana.

Nicole Gee amava il suo lavoro, quello che ragionando per stereotipi noi immaginiamo sulla falsa riga di Soldato Jane. Ma per diventare una donna marine non è obbligatorio mettersi davanti allo specchio e radersi a zero i capelli come fece Demi Moore, cioè mascolinizzarsi. Ci colpisce vedere una donna soldato in divisa, in servizio in un territorio di guerra, con un bambino in braccio perché è l'ossimoro di un accudimento con il fucile imbracciato. Ma è proprio questo il punto per non ridurre la foto che commemora il Sergente Gee a uno scatto virale usa e getta. Ci sono madri in prima linea per i propri figli.

L'immagine che l'Occidente dovrebbe difendere (o meglio, su cui dovrebbe ritornarne a interrogarsi) e opporre all'oscurantismo dei Talebani non è quella di una società così progredita nei diritti da permettere alle donne di fare persino un mestiere da uomo, ma di una civiltà in cui il sì al servizio di ogni persona è innestato nella sua libertà.

Verso l'aeroporto dove è morta Nicole Gee (e altri 12 marines e più di 80 civili) era diretto anche un folto gruppo di ragazze che sperava di prendere un volo per cominciare gli studi nell'ateneo italiano della Sapienza. Tutto è saltato a causa dell'attentato, non sono rimaste uccise ma sono a rischio di rappresaglie rimanendo sul suolo afghano:

Avevano lasciato la città di Herat (la città che fu affidata all'Italia come sede principale degli interventi di costruzione negli ultimi 20 anni) ed erano dirette a Kabul per imbarcarsi alla volta di Roma. Ora le 81 studentesse sono in una bolla di pericolosa attesa: Kabul è una città sotto attacco - come dimostrano gli attentati delle ultime ore - e tornare a Herat significa correre il pericolo di essere uccise.

La Farnesina dichiara di aver messo in campo tutte le forze per poter garantire una via di fuga a queste ragazze. Nella fatalità drammatica di questo volo mancato c'è spazio per uno spiraglio di bene: al loro gruppo potrebbero aggiungersi un altro centinaio di persone. Oltre ai 4 bambini già citati, l'Ateneo di Roma ha ampliato la lista dei passeggeri, aggiungendo 118 studenti afghani già pre-selezionati per i corsi nella sede italiana e sta valutando di accogliere la domanda anche di quelli che inizialmente erano stati scartati. Auguriamoci che il nuovo ponte aereo si attivi il prima possibile, permettendoci così di ribadire che l'educazione salva davvero la vita.

Un nuovo anno scolastico è alle porte. Questa vicenda, oltre che un caso di politica internazionale, può essere un'occasione concreta per farci guardare alla scuola con occhi ripuliti da tante polemiche sterili, per riportaci al cuore della faccenda: le dittature si cominciano a sconfiggere educando le anime a conoscere la storia, a interrogarsi su di sé e sul mondo, a riconoscere il valore unico della propria presenza nell'economia della comunità di cui si è parte.

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