Forse, dopo queste ore concitate di appelli e notizie che attraversano il mondo, di gente che corre sulla pista dell'aeroporto, sull'Afghanistan scenderà un assordante silenzio.
Il terrore che quello che molte donne e uomini di Kabul temono diventi realtà, che vengano messi a tacere diritti e ucciso un futuro su cui si è tanto lavorato e sperato, oggi è una prospettiva quanto mai surreale.
Mentre gli aeroporti sono nel caos e il panico o la disperazione fanno il resto spingendo la popolazione a gesti estremi che noi guardiamo impotenti dalla TV. Mentre le frontiere con Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan si preparano ad affrontare l'esodo via terra e noi tiriamo un sospiro di sollievo per i nostri connazionali atterrati a Fiumicino. In questo fuggi fuggi generale, ci sono ancora delle presenze. C'è chi resta o tenta di farlo. E intanto, fin quando sarà possibile, si racconta e racconta un paese che c'era ed è pronto a esserci ancora, nonostante tutto. Raccogliere appelli, testimonianze o solo grida di aiuto è un gesto di umanità, anche se sembra troppo poco.
Come diceva qualche tempo fa la fotografa e attivista afghana Rada Akbar in un video, sulle donne di questo paese c'è "un equivoco mondiale...si pensa che siano vittime o debbano essere salvate. O che non siamo in grado di definire le nostre priorità". Di certo, davanti a tanta violenza, alle notizie di rastrellamenti, di liste di donne nubili, è difficile pensare che non ci siano vittime. Ma queste donne, quelle che oggi sono tornate a scuola e all'universita' con l'hijab, stanno soprattutto cercando una voce che è stata loro tolta.
Pesa già come un macigno il silenzio di Zafira Ghafari, la sindaca di 28 anni, la più giovane dell'Afghanistan che aveva affidato le sue paure al sito britannico iNews:
Un ultimo contatto Whatsapp nella serata di domenica e poi silenzio.
Zafira, già sfuggita a tre attentati, donna, istruita, fedele al Presidente Ghani teme di essere un bersaglio eppure "non ho più paura di morire".
Si può fuggire da tutti, ma non da ciò che si ha nel cuore. Dagli ideali, da quello che è giusto.
Ci sono voci. Tante. Tutte con la stessa disperazione negli occhi.
Ci sono poi silenzi che gridano anche più forte.
Le donne scese in strada con cartelli A4, capelli coperti e tono fermo a manifestare. Gli account Instagram e Twitter disattivati come quello di Fatima: prima guida turistica afghana nella storia, non sposata, ultima di otto figli ad aver ricevuto un'istruzione.
Dalla ragazzina di 23 anni che ha postato in lacrime un video diventato virale, alle attiviste dell'associazione Pangea Onlus che bruciano i documenti per evitare ritorsioni contro sorelle, mamme, amiche.
Questo l'ultimo aggiornamento dell'associazione su La Stampa.
C'è il video della regista Sahra Karimov, mentre scappa per le strade di Kabul chiedendo alle sue concittadine di mettersi in salvo.
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Una mano di bianco coprirà i diritti civili e anche i murales di Shamsia Hassani? Classe 1988, famosa in tutto il mondo per i suoi murales che da sempre raccontano le donne in una società maschilista. La sua creatività è da sempre voce delle donne in Afghanistan. Coi suoi pennelli ha restituito loro un volto e soprattutto la voglia di essere sé stesse.
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Sono sue molte delle immagini che affollano i social questi giorni, silenziose e intrise di dolore. Nel buio di un fondo senza speranza, le donne di Shamsia continuano a essere quella nota di colore che si staglia su un futuro incerto e speriamo, meno nero di quello nei murales della street artist.
Arriva dai social l'appello dell'atleta paralimpica di taekwondo Zakia Khudadadi: unica donna nella storia dell’Afghanistan ad aver ottenuto la qualificazione per Tokyo2020.
Donna e disabile: due possibili marchi di infamia anche per la cestista Nilofar Bayat, costretta sulla sedia a rotelle proprio da un attacco dei terroristi alla sua famiglia. "Le donne come me non piacciono ai talebani" ha affermato senza giri di parole sulla prima pagina del giornale spagnolo "Marca".
Sono rimaste fino all'ultimo ai loro posti anche le suore dell'opera Don Orione che con l'"Associazione pro bambini Kabul" gestiscono nella capitale un centro diurno per bambini disabili mentali. Un progetto per preparare questi piccoli spesso fortemente discriminati (la disabilità e la diversità in genere sono spesso considerati segno di vergogna e punizione) e segregati in casa all'inserimento nelle scuole pubbliche.
In una intervista di qualche giorno fa a Vatican News, Padre Matteo Sanavino, responsabile dell'associazione, ha espresso preoccupazione per la sorte dei suoi piccoli e sulla ripresa delle attività umanitarie ha dichiarato:
Il grido di Giovanni Paolo II nel messaggio del Natale 2001, "salvate i bambini di Kabul", è ancora tristemente attuale. Venti anni dopo sono sempre loro a pagare il prezzo più alto come ricorda il murales apparso a Roma dell'artista Laika.
Pensa ai bambini e, nonostante tutto, al futuro anche Matiullah Wesa, 29 anni. Fa parte dell’organizzazione PenPath che costruisce scuole e biblioteche nelle parti più povere del paese. L'istruzione è l'arma vincente contro la violenza che tutto spazza via perché lavora nell'unico luogo sicuro e davvero inespugnabile: il cuore. Matiullah ne è convinto e vuole continuare la sua missione, quella iniziata davanti a un talebano che puntava una pistola alla tempia del suo insegnante.
Le moto dei talebani che portavano terrore, grazie a lui e a 2300 volontari tra cui 40 donne, hanno consegnato libri in questi anni e la prospettiva di un futuro migliore in tanti villaggi.
Educare le persone, mostrare loro il loro valore è già renderle libere. Se questi venti anni hanno concesso del tempo per seminare e hanno contribuito in qualche modo a piantare un seme di consapevolezza nel cuore di questo popolo, non tutto è perso per l'Afghanistan. Il coraggio e la non rassegnazione di chi resta o vuole tornare è la prova che qualcosa è stato messo nel luogo più inespugnabile, anche per i talebani.
Forse tra qualche mese ci sarà solo silenzio.
Forse sembra inutile e davvero troppo poco limitarsi a raccogliere queste grida di aiuto. Raccoglierle è lasciare che non si disperdano nel vento, far sapere che ognuna è accolta e ascoltata. È un modo per dire a queste persone che, se anche non potessimo fare nulla di più, non smetteremo di tendere l'orecchio e pregare per loro. Anche nel silenzio.