Premessa
Ho ritenuto conveniente iniziare questa riflessione/meditazione con la seguente citazione tratta dall’A. T. in quanto, a mio avviso, paradigmatica della vera conversione. Infatti, guardando all’esperienza, il cambiamento in positivo nella nostra vita non avviene quasi mai per un giudizio che ci condanna senza appello, ma per la presa di coscienza, aperta alla speranza, che ciò che si sta facendo non ci realizza, anzi mortifica la nostra dignità e soprattutto ferisce l’amore che Dio ha per noi (cf Lc 15, 17-19). Domenico di Guzman con la sua vita testimonia di essere stato sempre convinto di questa profonda verità ed ha vissuto la sua missione di “umile ministro della predicazione” persuadendo le persone con l’esempio e la parola di Dio. Certo che solo Dio può toccare e cambiare il cuore degli uomini, cambiamento che inizia dal prendere atto del non senso di quanto si sta vivendo (cf Lc 23, 41-43). Consapevole che in tutto questo egli era solo uno strumento della tenerezza del Padre, una manifestazione concreta del suo amore (cf 1 Cor 12, 7). Perciò la sua vita riveste un’importanza particolare per me e per te che viviamo oggi, perché ci apre orizzonti insperati.
“Il Signore mandò il profeta Natan a Davide e Natan andò da lui e gli disse: ‘Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui’. Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: ‘Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà’. Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo!” (2 Sam 12, 1-7).
Infatti, fino a quando non si arriverà a riconoscere che ‘io sono quell’uomo’, il mondo non potrà cambiare perché io non accetto la mia parte di responsabilità, e continuerò a pretendere che cambino gli altri, rifiutando così di essere onesto e di prendere atto che necessariamente devo prima riconoscere di dover cambiare me stesso (cf Mt 7, 4-5; Lc 6, 41-42), almeno desiderarlo e tentare con l’aiuto di Dio. Se questo desiderio sarà sincero e il tradurlo non sarà solo una ‘buona intenzione’, dalla mia esperienza spesso faticosa, inizierò almeno a comprendere di più l’altro.
Ricorrendo il 6 agosto l’Ottavo Centenario della nascita al cielo di san Domenico di Guzman (morì a Bologna il 6 agosto1221), cioè di colui che ha ricevuto nella e per la Chiesa, ma anche per ogni essere umano, il carisma della carità della verità (cf Ef 4, 15) e trovandoci nell’Anno Giubilare Domenicano, ho pensato di condividere una mia personale esperienza: il racconto dell’impatto che ha avuto la lettura di una vita del santo spagnolo, scritta dal domenicano francese P. Henri Dominique Lacordaire, su un giovane al primo anno di università. La propongo non come una storia da leggere, ma su cui riflettere e meditare, soprattutto alla luce dei riferimenti alla Parola di Dio[1], rendendo così a Lui grazie per il dono di questo campione della carità che, come tutti i santi, c’invita alla conversione testimoniando che essa è sempre possibile per tutti, nessuno escluso. Il ragazzo che era alla ricerca del senso della propria vita, aveva ricevuto in prestito da un sacerdote domenicano, con il consiglio di leggerlo, questo libro che non era proprio quello che lui si aspettava: un vecchio libro datato nello stile, di una vita di un santo, vissuto tanti secoli prima, per giunta ‘comunemente noto’ come tremendo inquisitore, a chi sperava di diventare un avvocato o, meglio ancora, un magistrato che rendesse giustizia al popolo attraverso l’equa amministrazione del diritto (quindi inconciliabile con ogni pretesa di costrizione di tipo inquisitoriale), non il massimo che si potesse aspettare, … almeno umanamente parlando! (cf Is 55, 8-9).
Però alla fine, soprattutto per non essere scortese e non fare la figura dell’ingrato, egli iniziò a leggere il libro che di fatto divorò in poche ore. Infatti, rimase letteralmente affascinato, anche se molto confuso, dalla vita semplice, lineare di quest’uomo, piena di una profonda fede – che lo caratterizzò fin da bambino – e che con umiltà ha sempre cercato e proposto a chi incontrava, in concreto la Verità liberante che è Cristo (“Non abbiamo infatti alcun potere contro la verità, ma per la verità; …”: 2 Cor 13, 8), il Figlio di Dio (quindi un Padre e non un padrone), che sentiva non anonimo e lontano, ma come Colui che l’amava profondamente e aveva dato la sua vita per lui, “… e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Quindi, niente conversioni spettacolari, nessuna fase della vita ‘piccante’ dedicata alla sfrenata conquista di quanto si pensa possano dare solo il sesso (cf Rm 1, 24-27), i soldi (cf Col 3, 5) e il successo (cf Mc 10, 35-45), quest’ultimo in particolare, che si concretizza nello ‘sbavare’ per il potere, con vere e proprie ‘cordate’ o differenti lobbies, e si declina assumendo la menzogna, l’inganno e l’ipocrisia, autoconvincendosi che siano comportamenti ‘normali’ (cf 2 Cor 12, 20-21), che s’impone nel protagonismo costi quel che costi, come anche nel pensare di realizzarsi sottomettendo e umiliando l’altro, nel fargliela pagare, nell’essere comunque al centro dell’attenzione, sempre e comunque visibile ai più, oggi misurato con il numero dei like. Smarrendo l’importanza di ottenere il like più importante, l’unico che potrà darci quella gioia che non passa, quello di Colui che ci ha dato l’essere/ci (cf 1 Sam 16, 7). Dimenticando che si può conquistare tutto, ma rimanere ‘vuoti dentro’, cosa che ci ricorda, tra i tanti, Cesare Pavese che scrisse: “C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali, esserci riusciti”. Ed un anno prima di togliersi la vita scriveva, riguardo al grande successo delle sue opere: “E’ una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi? […] ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita” (Il mestiere di vivere).
Quindi, una storia quella di Domenico insignificante per la mentalità del mondo, ma di quale mondo? Il nostro mondo dove regna più l’iniquità che la giustizia (cf Dt 1, 16-17), pieno di vittime del proprio e dell’altrui egoismo (dove si recrimina sulle ferite ricevute, ma si dimenticano quelle inferte da noi), dove alla fine dei conti, quasi sempre quando è troppo tardi, anche il carnefice si scopre vittima di se stesso (cf Sal 33, 23). Un mondo che Domenico ha sempre percepito come un ‘mondo vecchio’ pieno di conflitti, di soprusi, di falsità, d’ipocrisie e vanagloria (proprie dell’uomo vecchio: cf Ef 4, 22), soprattutto nel mondo ecclesiale (non solo ai suoi tempi …), dove spesso e volentieri non si serve Dio, ma ci si serve di Lui e della Chiesa per pascere se stessi (cf Ez 34, 2), dove Dio è usato per elevarsi socialmente, per arrivare ai posti di comando e per avere il controllo sulla politica e sui beni materiali e provare così l’ebbrezza che dà il dominareo. Con questo spirito, molto spesso, ci si affanna per conseguire i titoli accademici, onorificenze e la conoscenza delle lingue e non certamente per la salvezza delle anime (cf san Francesco Saverio, S. I. e i suoi richiami alla missione per gli studenti chierici a Parigi …). Per questo ‘carrierismo in nome di Dio’, si è disposti, con spirito di competizione, a scendere a compromesso con calcoli meschini, fino al ‘voto di scambio’, magari anche con colui del quale si è parlato male e si è calunniato fino ad un momento prima (cf Sal 51), ma con il quale ci allea per mere ragioni di potere e di avidità (che diventano idolatria come l’avarizia: cf Col 3, 5), ovvero per far fuori l’altro in ‘questo turno’, salva la prossima volta, quando, quasi sicuramente uno di loro sarà fatto fuori grazie al tradimento del precedente ‘alleato’! Il potere diventa un’ossessione, una vera e propria malattia.
Domenico non si arrestò a constatare e non si mise a giudicare questi effetti scandalosi, cosciente che nessuno è senza peccato (cf Gv 8, 7; senza però nascondersi la tragicità di questi comportamenti: “… se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”: Gal 5, 15), ma portò tutto nella preghiera notturna quando con compassione e biblica misericordia[2] lo si sentiva gridare: “Che cosa sarà dei poveri peccatori?!?”. Intelligentemente si domandò quale fosse la causa. La risposta che trovò – valida per tutte le epoche e quindi anche oggi – è che il vero problema, la causa di tutti questi comportamenti è sempre la mancanza di fede che impedisce la conversione del cuore (che rimane di pietra: cf Ez 11, 19; 36, 26; non permette i miracoli: cf Mt 13, 58), senza la quale non è possibile vivere la propria vocazione soprannaturale e quindi inevitabilmente si cade, e ci si lascia distruggere, dalle relative compensazioni e surrogati che non pagheranno mai: pozzi di piacere che prima o dopo seccano o cisterne screpolate che non tengono l’acqua (cf Ger 2, 13). Quindi un ‘mondo vecchio’ fatto di voglia di dominare, di invidie, di gelosie, di violenti (“… il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”: Mt 11, 12), con una falsa e falsante idea di libertà (dimenticando che: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri”: Gal 5, 13; cf anche Gc 2, 12-13), che si traduce nei fatti in squallida imposizione ed uso degli altri, quindi quel mondo vecchio fatto di ‘belve’ al quale Domenico vedeva alternativo il mondo nuovo (proprio dell’uomo nuovo: cf Ef 4, 23-24), rivelatoci da Gesù Cristo, dove sarà l’Agnello mansueto il vero ed unico protagonista e il vincitore finale (cf Gv 1, 29; 36; Ap 22, 3-5).
In tutta la sua breve, ma intensa esistenza Domenico fu e rimane tutt’oggi modello della ricerca del senso della propria vita (ai tanti ‘perché’ che ci assillano: perché questa pandemia e la crisi economica? Perché questa crisi morale e di fede? Perché ricambiamo con il male o l’indifferenza, chi ci ha fatto del bene e mi trovo impotente a fare il bene che pur vorrei fare? [cf Rm 7, 18-19] Perché, perché?), e questo con un atteggiamento di sincera obbedienza (secondo l’etimologia dal lat. oboedire, comp. di ob e audire ‘ascoltare’) alla volontà di Dio che ci parla attraverso la sua Parola e gli avvenimenti, un Dio che sentiva come Colui che, come ogni vero genitore, vuole il massimo di bene per i propri figli, nonostante il loro ‘egocentrismo’. Solo riconoscendogli questo spirito si spiegano tanti eventi della sua storia: la vendita delle pergamene che gli servivano per gli studi per soccorrere le vittime della carestia (“… chi ama Dio, ami anche il suo fratello”: 1 Gv 4, 21), l’obbedienza al suo vescovo di lasciare la sua terra per una missione che sicuramente non gli apparteneva, l’impatto con la realtà dell’eresia e le sue terribili conseguenze, e la presa di coscienza dei peccati dei ministri della Chiesta che di fatto non hanno voluto mai servirla ma si servivano di essa per i loro ambiziosi e opportunistici piani per conquistare potere e guadagnare soldi. La sua risposta a tutto questo è stato l’impegno attraverso la testimonianza della propria vita di un modo diverso di vivere la fede (cioè di ‘credere’, nell’accezione giovannea: dare fiducia a Cristo inviato di Dio, fidarsi della proposta di vita che ci fa con il Vangelo, cioè donare la vita per amore: cf Gv 6, 29; 1 Gv 4), che ha attratto subito delle donne e degli uomini e questo fino ad oggi, e tra essi tantissime sante e santi, quindi persone che ci hanno creduto veramente e hanno vissuto la loro vita coerentemente a Cristo. Intuendo, con la ragione illuminata dalla fede, che il segreto della vera felicità, non dell’effimera realizzazione attraverso ciò che perisce (cf Gv 6, 27 ed anche Mt 6, 33), è nel sentirsi un dono chiamato a donarsi a Dio e al prossimo: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4, 7; cf anche Lc 9, 24; 14, 26; 2 Cor 9, 7; perché l’unica cosa che dobbiamo fare è vantarci nel Signore: cf 1 Cor 1, 31). Se ognuno, nessuno escluso, avesse presente queste sacrosante verità, quanti meno ‘palloni gonfiati’ circolerebbero …
Però, tra i molteplici fatti narrati della vita di san Domenico, due letteralmente scioccarono il giovane universitario. Il primo riguardava l’estrema povertà abbracciata liberamente da Domenico, una povertà che non gli ha permesso mai di avere neppure una propria cella (camera), e l’ha portato a mendicare quotidianamente il cibo per sostenersi. Il bello è che tutto questo fu non per un perverso e patologico masochismo o per una religiosità naturale infarcita di cerimoniali nevrotici (cf Is 1, 11-13; 58, 4-10), ma per essere, e non solo sentirsi, veramente una persona libera (“… gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!”: 2 Cor 6, 10). Il secondo fatto, invece, era la scelta di Domenico di avere quanto di più prezioso si potesse trovare per la celebrazione della santa Messa. Decisioni a prima vista contraddittorie e sicuramente incomprensibili ai più, ma per il giovane universitario furono l’occasione per scoprire il senso della propria vita, cioè che essa è una partita che si gioca in un tempo unico e non si danno tempi supplementari. In un attimo ebbe evidente come Domenico aveva capito tutto della vita: a che cosa dare il giusto valore e a chi dare il primo posto per non sprecare il dono unico ed irripetibile dell’esistenza che abbiamo ricevuto, cioè il coniugare nel quotidiano ciò che la Parola ci propone continuamente: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10, 27).
Questa presa di coscienza di Domenico, che testimoniava di aver capito dove risiedeva la vera felicità e il senso della vita, non lasciò più tranquillo il giovane fino a quando capì che attraverso quella ‘casuale’ lettura, Dio gli aveva rivolto una vera e propria chiamata e alla fine, anche se con ‘timore e tremore’, si gettò nelle mani di Dio come un bambino (cf Sal 130) e decise di rispondere alla chiamata secondo il carisma della carità della verità, ma allo stesso tempo della verità della carità (in quanto è la sola che conterà alla fine: cf 1 Cor 13, 13), donato dalla Spirito Santo a Domenico, chiedendo solo una cosa: l’onestà di riconoscere di essersi sbagliato, se quella non era la sua vocazione, di non accettare mai di rimanere per non deludere gli altri o per convenienza e opportunismo, di fuggire il compromesso. Quel giovane aveva capito, o almeno aveva iniziato a intravvedere, per chi e per che cosa conveniva giocarsi l’unica vita che si ha e piano, piano, iniziava a comprendere il significato in particolare di una parabola evangelica la cui proclamazione l’aveva sempre colpito: “Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mc 13, 45-46). Quindi la presa d’atto di una fortuna incredibile (cf G. Biffi), dalla quale si è stati baciati in modo inaspettato, di trovarsi colmi di una gioia incontenibile che san Giovanni Crisostomo è riuscito ad esprimere magnificamente commentando che: “Questa perla unica è la verità, e la verità è una, non si divide. Possiedi una perla? Allora, tu conosci la tua ricchezza: è racchiusa fra le tue mani; tutti gli altri ignorano la tua fortuna. Così è del vangelo: se l’abbracci con fede, se resta racchiuso nel tuo cuore, quale tesoro possiedi! Tu solo lo conosci: chi non crede ne ignora la natura e il valore e non ha alcuna idea della tua incalcolabile ricchezza” (Omelie sul Vangelo di Matteo, 47, 2).
Non aggiungo altro, anche se ne sarei tentato, ma spero soltanto che il racconto di quanto vissuto da questo ragazzo aiuti tutti coloro che leggeranno con l’occasione di questo anniversario, soprattutto a chi sta vivendo l’alba della propria esistenza, a farsi le domande giuste perché alla fine, come scriveva un filosofo, l’importante nella vita non è avere le risposte a tutte le domande, cosa del resto impossibile, ma è farsi le domande giuste, al momento opportuno, per poter decidere e scegliere onestamente hic et nunc per chi e per che cosa voglio giocarmi l’unica vita che mi è stata data da vivere. Percependo che la vita non si dà per il passare del tempo, vagabondando da un’esperienza ad un’altra, da un’infatuazione a quella successiva, da una dipendenza all’altra, dall’ambizione per posti sempre più ‘in alto’, cercando di riempiere ciò che queste cose non riempiranno mai, ma si compie nella misura in cui si vive come occasione di grazia e con amore ogni suo attimo. Questo affinché, quando arriverà il tramonto nel nostro pellegrinaggio terreno, non rimpiangeremo di aver sprecato qualcosa di prezioso, unico e irripetibile (come ci ricorda la parabola dell’anonimo uomo ricco e del povero, che però ha un ‘nome’, Lazzaro per il quale sarà ricordato fino alla fine dei tempi: cf Lc 16, 20-31), allora capiremo la sapienza di quanto ci ricorda il Salmo 49, 6-14[3], che mi sembra il modo più conveniente di concludere questa meditazione su san Domenico, uomo di fede, speranza e carità, e per celebrare questo anniversario, aprendo l’animo ad una preghiera che parte dal far propria pacificamente e liberamente la nostra condizione, ma si apre alla speranza che solo la fiducia in Dio può concederci. Allora, con questo spirito dobbiamo necessariamente chiederci e non possiamo rimandare: “Dove poggia la mia speranza oggi?” (J. Carrón). Capisco per chi e per che cosa giocarmi la vita? L’unica vita che possiedo e che, quando avrò finito di leggere queste righe, sarà inevitabilmente e inesorabilmente già più breve?
Basilica Santuario di Santa Maria del Sasso, Bibbiena (AR), 6 agosto 2021, VIII Centenario del Dies natalis di san Domenico di Guzman
P. Bruno, O. P.
[1] Per chi volesse, per esempio, come preparazione prossima alla solennità di san Domenico l’8 agosto.
[2] In modo particolare all’A. T. prendendo come riferimento il termine ebraico di rahamìm, plurale di rehem, che significa “utero”, o più genericamente i “visceri”. Quindi, la misericordia a cui si allude è sinonimo di tenerezza, di amore materno, viscerale, un affetto profondo del cuore.
[3] “Perché temere nei giorni tristi, quando mi circonda la malizia dei perversi? Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba. Vedrà morire i sapienti; lo stolto e l’insensato periranno insieme e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà loro casa per sempre, loro dimora per tutte le generazioni, eppure hanno dato il loro nome alla terra. Ma l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono. Questa è la sorte di chi confida in se stesso, l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole”.