Le malattie mentali sono puzzle difficili da risolvere. È dura per chi la vive rimettere insieme i tasselli ancora e ancora. Una altalena di cure e ricadute, in cui ogni volta c'è da fare i conti con quello che la malattia ha lasciato dietro di sé: tempo da recuperare, ferite da ricucire. È dura attraversare la malattia come famiglia, senza uscirne a pezzi. Trovare il coraggio di ricominciare e ricominciare di nuovo, infinite volte.
racconta Francesca Bisogno nel suo ultimo libro L'amore non ha limiti. Una mamma, una figlia, il disturbo bipolare e l’amore che salva, per Tau Editrice.
I pezzi che questa donna ha dovuto mettere insieme a causa del disturbo bipolare di cui sua madre ha sofferto fin da quando era piccola, non sono stati pochi.
Ci sono state le domande, a quel Dio che "permetteva così tanta angoscia e devastazione". Ci sono stati i momenti belli, le parole che non capiva, quelle che non diceva la mamma amorevole che aveva conosciuto, ma la malattia che, per periodi spesso molto lunghi, anche anni, la imprigionava.
C'è stato un papà sempre presente che per primo non ha mai smesso, non tanto di cercare quella moglie oltre il velo del disturbo bipolare che la rendeva maniacale e aggressiva, ma di amarla.
Nel racconto di questa vicenda familiare, come un flusso di coscienza, quasi una terapia per rimettere a fuoco tutto ciò che è stato, Francesca ci restituisce la difficoltà, a tratti anche la disperazione, di quella croce che non va edulcorata. C'è però anche un percorso di speranza fatto di parole a cui aggrapparsi e che vi restituiamo.
Che bella questa prospettiva che apre a tutti, malati e non, la possibilità di riconoscersi di nuovo.
Immagino la mamma di Francesca, dopo uno di quei periodi in cui il bipolarismo l'aveva portata a telefonate irruente ad amici e parenti, a spese folli, a dimenticare persino il suo buon gusto nel vestire, guardarsi allo specchio e ripartire.
Apparentemente dietro di lei la malattia ha lasciato solo macerie, nei cuori di chi amava di più: penso al senso di colpa che schiaccia una madre per le parole pesanti dette ai figli anche se guidate dalla malattia.
Mi sento soffocare e vedo questa donna che raccoglie i pezzi di quel puzzle che è la sua vita e li rimette insieme tra telefonate da rifare e vacanze in montagna da programmare per riprendersi tempo e legami.
Noi, quelli sani, spesso non siamo capaci della stessa umiltà di chi invece, già duramente provato nell'animo e ampiamente giustificato da una diagnosi, non ammette a sé stesso scuse.
Francesca molte volte avrebbe preferito essere dovunque, invece che con quella mamma che la metteva in imbarazzo, che non accettava i divieti o di mangiare nemmeno quando era in gioco il suo bene.
A volte però bisogna accettare di perdere qualcuno come lo conoscevamo e semplicemente rimanere accanto a chi amiamo.
Temiamo che stare nell'insoddisfazione, nella sofferenza, nel dubbio, provare rabbia o sconcerto ci allontani da chi amiamo. Francesca è testimone della paura di perdere l'amore di quella madre a ogni "no", di non essere più capita. Lo facciamo anche con Dio: pensiamo spesso di doverlo ammansire con le preghiere, i sacrifici, piuttosto che vederli come atti di amore.
Lui, come una madre, non ci tiene ostaggio della malattia o della sofferenza per punirci o perché vuole una dimostrazione di quanto ci teniamo. Forse, proprio quando dubitiamo e pensiamo di essere immeritevoli, ecco che lo sentiamo ancora più vicino.
Nessuno ci allontana dall'amore di una madre, "ma se anche una madre si dimenticasse, io invece non vi abbandonerò mai", dice la scrittura.
Anche la sofferenza ha mille sfaccettature. Chi la vive da dentro se ne rende conto. Soffre per gli sguardi esterni di giudizio o commiserazione perché conosce bene la ricchezza che c'è oltre la coltre del dolore che tutti vedono. Ha imparato a guardare alla persone oltre la malattia. Non perché sia più bravo, ma perché di quella persona, malata e inutile agli occhi del mondo, non può fare a meno.
Solo quando ricominciamo a vederla, riprendiamo anche quel dialogo d'amore con lei, seppur in maniera diversa.
Gli stessi medici non sempre riescono a focalizzarsi sulla persona dietro alla diagnosi. Francesca racconta di come, in questo rispetto e riconoscimento, sia stato invece gran parte del successo delle terapie di sua mamma.
Al di là delle definizioni di sano o malato, c'è qualcuno pronto a dare e ricevere amore.
Sembra una parola da dire sul finale: quando ci si volta indietro ed è più facile, fuori dalla tempesta, trovare ciò per cui essere grati. Eppure la forza di questa famiglia è stata quel non smettere di dire grazie mentre era in mezzo alle nubi più nere.
Non c'è una ricetta magica, qualcosa che lo renda facile, ma solo un abbandonarsi fiducioso. La preghiera costante chiesta anche agli amici. Quella che lei descrive come una "sensazione di pace" in quei momenti di sguardi persi nel vuoto e continui "no" da mandare giù.
Forse, solo sul finale saremmo in grado di dire grazie, un grazie sollevato. Ma quanta grazia c'è nel saperlo dire quando, seppur non vedendolo chiaramente, viviamo nella convinzione che c'è qualcosa di immenso anche nella sofferenza? È quell'amore che non ha limiti e che si manifesta nella sua grandezza proprio quando si staglia contro la finitezza della nostra fragile umanità.