Bisogna riconoscere che internet ha cambiato - e molto - il nostro relazionarci gli uni agli altri: postiamo foto, pensieri, invettive, articoli che ci sono piaciuti o che ci hanno indignato. Se vivessimo nell'era pre-Google queste cose le avremmo fatte lo stesso, ma al massimo in piazza, o a casa dagli amici. Non con migliaia di sconosciuti che ci guardano. Abbiamo messo a nudo le nostre vite, mentre contemporaneamente la cultura contemporanea ci spingeva - e ci spinge - a non mostrare né la sofferenza, né tanto meno la morte. Eppure anche queste fanno parte della vita.
Sui social dobbiamo mostrarci al meglio, non è come avevamo sperato una piazza per dialogare, ma sempre di più una vetrina dove vendersi. Dobbiamo essere belli, arguti, andare i posti bellissimi, mangiare cose buonissime. Siamo diventati - chi più, chi meno - promoter di noi stessi, e allora i momenti più critici della nostra vita diventano quelli che vanno nascosti, del resto oggi si muore in ospedale dietro un paravento, ai tempi dei nostri nonni si moriva in casa circondati dagli affetti se questo era possibile. Mi raccontava il mio parroco, ormai qualche anno fa, che quando era piccolo il Venerdì Santo si spegneva la radio, e quando sua nonna era nel letto in casa ed era lì lì per tornare alla Casa del Padre, ugualmente sua madre gli spense la radio. Fu così che lui - mi raccontò - capì sia cosa fosse la morte, sia cosa fosse il Venerdì Santo. Catechismi popolari, efficaci perché capaci di metafore.
Chiaro che non si può tornare indietro agli anni '50. Non avrebbe senso, e chi lo propone è per lo più un nostalgico, però possiamo imparare qualcosa da quel tempo, così come possiamo imparare qualcosa da chi abita la rete e i social in modo diverso.
Un esempio di questo processo è una storia che mi è capitato di leggere su Rivista Studio, in cui si racconta della morte - a causa del cancro - di Kathy Brandt nel 2019 e del progetto suo e della compagna di vita (e moglie) Kimberly Acquaviva (professoressa di infermieristica) per raccontare il proprio fine-vita. La loro storia è arrivata ad interessare anche il prestigioso New Yorker, forse la rivista più interessante e meglio curata dell'orbe terracqueo, che ha prodotto un breve documentario dal titolo Documenting Death:
In questi undici minuti si è voluto dare una rappresentazione normale della morte, non eroica, non militante, senza fronzoli. Ci sono gli ultimi scambi tra le due donne, c'è la sofferenza e la debolezza di chi sta terminando la sua vita, c'è l'affetto di chi si è amato per lungo tempo. E - grazie a Dio - non c'è il letto di ospedale, ma quello di casa, ci sono le cure palliative e la terapia del dolore, non c'è nessuna accelerazione della morte, elemento che di questi tempi non è scontato. Ci sono le ultime parole
Ecco che questo documento, questa condivisione diventa un atto di resistenza alla società edulcorata, color caramella, dei vincitori, qualcosa che - mi pare - si sta incrinando un pochino anche grazie a gesti come quello della ginnasta americana Simone Biles che ha rinunciato alla gara perché la sua salute mentale (un altro grande tabù, forse più ancora di quello fisico) era a rischio: ha detto stop, viene prima la mia serenità, prima del successo viene la vita. E la morte - per tornare al discorso precedente - è parte integrante di essa.