L’emergenza sanitaria pandemica che dura ormai da più di 15 mesi e comprende praticamente un anno e mezzo di vita scolastica ha insegnato molto alle scuole e alle istituzioni ministeriali e regionali che vi sono preposte.
Purtroppo, come tutti coloro che vivono e lavorano nella scuola sanno bene, insegnare non comporta per forza l’imparare, perché se è vero che la responsabilità di chi insegna è molto importante, non lo è di meno quella dei discenti, di chi dovrebbe imparare e fare esperienza.
Lo abbiamo visto per tutto l’anno: le scuole d’Italia sono state praticamente abbandonate
a se stesse, gli sono stati forniti i servizi igienici essenziali, centinaia di migliaia
di nuovi banchi e sedie (la metà dei quali del tutto inutili), mascherine e disinfettanti
per le mani, una selva di burocrazia normativa e nulla più.
Ogni scuola doveva cavarsela da sola per ricavare spazi impossibili per il distanziamento, orari scaglionati che ignoravano le attività pomeridiane degli studenti, una didattica che ha faticato non poco per riconvertirsi a distanza, semi-distanza, distanza alternata al 70%, al 50%, al 30%, disparità regionali sulla gestione delle quarantene, difficoltà materiali nelle
connessioni e nelle attrezzature digitali e – dulcis in fundo – una catastrofe emotiva e
cognitiva senza precedenti per intere generazioni.
Dati alla mano, e fatti salvi gli ordini di scuola inferiori (infanzia, primaria e secondaria di primo grado) che hanno potuto svolgere una didattica quasi sempre in presenza, nelle scuole superiori si è registrato nel 2021 un tasso di abbandono scolastico superiore al doppio di quello degli anni precedenti (e l’Italia già prima non brillava in Europa su questi dati).
Un quarto della popolazione scolastica delle superiori ha abbandonato la frequenza e gli studi, riempiendo ancora di più il già drammatico bilancio annuale dei cosiddetti “Neet”, vale a dire coloro che non hanno né un impiego, né seguono degli studi. Persone quindi anche molto giovani, tra i 15 e i 29 anni, che passano il loro tempo senza fare nulla né investire alcunché per il loro futuro.
Non studiano, non lavorano e sono decisamente più infelici degli altri, secondo i dati statistici raccolti da agenzia statali come l’ISTAT.
La didattica a distanza ha provocato l’incremento esponenziale di questa tendenza.
Una fuga verso l’inedia, la sfiducia e il nulla da cui l’istituzione scolastica ha imparato
(si spera) che formazione, cultura, educazione e istruzione sono efficaci sempre e solo se accompagnate da una presenza fisica ed emotiva di cui nessun giovane potrà mai fare a meno e che nessuna macchina, per quanto digitalmente e artificialmente intelligente, potrà mai trasmettere.
Nel bilancio che la pandemia ha imposto al mondo scolastico, i numeri negativi sono stati purtroppo superiori ai positivi in termini di formazione, esperienza e sviluppo delle giovani generazioni.
Il “mondo scuola” deve imparare a rimanere un mondo vivo e reale, senza filtri e senza schermi che, seppure molto utili e a volte indispensabili, rischiano di parcellizzare e frantumare l’esperienza formativa isolandola nei singoli individui separati fisicamente fra loro.