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Lo stato della questione sulla Messa in “rito antico”

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 21/07/21
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Traditionis custodes imprime una muscolare virata alla rotta tracciata nel 2007 da Summorum Pontificum, ma lo scenario è destinato a definirsi ulteriormente nel breve e medio-lungo periodo.

Stanno arrivando, in questa prima settimana a partire dalla sua promulgazione, le prime importanti reazioni al motu proprio di papa Francesco Traditionis custodes, e bisognerà attendere almeno qualche mese ancora prima di stilare un bilancio della sua prima ricezione. È di oggi, ad esempio, la notizia che la conferenza episcopale della Costa Rica ha preso nettamente posizione a favore del motu proprio e “contro il Vetus Ordo”: 

Piccola chiosa a margine: proprio in forza di Traditionis custodes, l’“esclusiva competenza” nell’«autorizzare l’uso del Missale romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti della Sede Apostolica», spetta «al vescovo diocesano» – non alle conferenze episcopali. Sarebbe paradossale che, lamentando come un gravame la pressione del Romano Pontefice – il cui ufficio è di diritto divino –, i vescovi andassero a ipotecare la loro (pur collegiale) autonomia sotto all’ombrello delle conferenze episcopali – istituto di diritto ecclesiastico. 

Certo non aiutano gli opinionisti che da una settimana parlano dell’“abolizione della messa in latino”: si direbbe che o non capiscano di cosa si sta parlando o non intendano aiutare a capire. 

La “messa in latino” si celebra ogni giorno su migliaia di altari in tutto il mondo, a cominciare da quelli della basilica vaticana… naturalmente secondo il rito di Paolo VI e Giovanni Paolo II (che sussiste in un’editio typica latina, ovviamente): se non si ha chiaro questo primo punto orientarsi sugli altri sarà pressoché impossibile. 

Ci è utile ad esempio pubblicare (in forma anonima) quanto ci scrive un Lettore, il quale esprime verosimilmente gli interrogativi di molti in questi giorni: 

Allora, lo si dica nel modo più chiaro possibile: né Traditionis custodesSummorum Pontificum risponde a questo quesito, perché né l’uno né l’altro dei motu proprio hanno per diretta destinataria la Fraternità Sacerdotale San Pio X. 

Certo, evidentemente entrambi i provvedimenti erano e sono anche funzionali all’auspicio di reintegrare nella piena e perfetta unità della Chiesa cattolica certe situazioni ecclesiologicamente border-line, che protestano risentite quando le si tratta da scismatiche de facto e poi rivendicano il presunto diritto di rigettare il magistero conciliare (nonché quello pontificio successivo al 1962). Resta quanto mai esemplare quanto mons. Bernard Fellay – allora superiore generale della FSSPX – disse nell’omelia tenuta a Puy-en-Vélay domenica 10 aprile 2016

Questi i fatti: Fellay era stato scomunicato nel 1988 per la consacrazione episcopale ricevuta senza mandato pontificio… e tale era rimasto fino al 21 gennaio 2009 (due anni e mezzo dopo Summorum Pontificum!) quando Benedetto XVI – evidentemente nella speranza di stimolare un riavvicinamento della FSSPX – gli ha rimesso la censura canonica. 

All’inizio del febbraio 2013, dunque pochi giorni prima di annunciare le proprie dimissioni – ce ne informa Fellay per esserne stato informato direttamente da Francesco – tra i tormenti di Benedetto XVI c’era anche quello di aver forse fatto male a sospendere quella punizione, visto che nessun effetto accennava a provenirne. Francesco ha provato allora a prendere Fellay con le buone («oh, era molto aperto!»), ma gli ha ricordato neanche troppo velatamente che la questione era ancora lungi dall’essere risolta… e che verso una risoluzione, invece, bisogna andare. 

Questo per quanto riguarda la FSSPX, cioè “i Lefebfriani”: il giovane successore di Fellay, don Davide Pagliarani, sembra per ora molto meno disposto del predecessore a mostrare segni di concreto riavvicinamento. Andare dunque a messa da loro – per tornare alla domanda del nostro Lettore – non è consigliato/permesso/concesso: nessun Vescovo cattolico ha piacere di sentirsi chiedere da uno dei suoi fedeli “posso andare a messa da quelli ostili al Papa – anche se (peccarità!) lo nominano nel Canone – e al Concilio?”. Non solo: nessun vescovo cattolico ha una “risposta ufficiale” da dare. 

Un secco “no” confliggerebbe con la sospensione della scomunica; un “sì” sarebbe autodistruttivo… S’immagini la situazione di un padre che si senta chiedere da un figlio il permesso di andare a pranzo da un fratello che non mette più piede in casa perché accusa la madre di essere una poco di buono: che dovrà dire il pover’uomo al figlio (e alla moglie)? 

Donde i tentativi di recupero, a cominciare dalla Fraternità Sacerdotale San Pietro, fondata da Giovanni Paolo II proprio nel 1988, quando alcuni sacerdoti reputarono eccessivo lo strappo di mons. Lefebvre e vollero riconciliarsi col Romano Pontefice: già da allora quella società clericale di vita apostolica (di diritto pontificio) aveva avuto il permesso di proseguire a vivere la liturgia cristiana secondo i libri liturgici anteriori alla riforma post-conciliare, ossia quelli del 1962 (permesso già concesso nel 1984 con l’indulto Quattuor abhinc annos). 

Fu pura tattica politica? Chissà: non pochi liturgisti hanno fin da allora osservato che (in teoria) non sono mai esistite “più forme” di un singolo rito – ogni rito invece consterebbe di una sua propria forma. Altri invece ritengono che la cosa sarebbe andata a spegnersi meno traumaticamente di come sta avvenendo se all’indomani della riforma Paolo VI avesse lasciato il permesso, secondo limiti che si sarebbero dovuti stabilire, di mantenere “fino a data da destinarsi” anche il Vetus Ordo

Non sapremo mai “come sarebbe andata se…”: certo è che mons. Ratzinger aveva manifestato già da allora una certa apertura all’ipotesi del parallelismo. Temporaneo? Tattico? Lui ha sempre sostenuto di no, e difatti il primo articolo del Summorum Pontificum suona: 

È innegabile che il primo articolo di Traditionis custodes abrada seccamente e sovverta radicalmente l’omologo del testo benedettino: 

“L’unica espressione”, si legge: di “forme liturgiche” si fa cenno appena nell’introduzione, cioè nell’anamnesi dei precedenti dispositivi canonici. Un’inversione a U? Da un certo punto di vista, innegabilmente, ma il testo di Francesco ricorda che fu lo stesso Benedetto XVI, nel 2010, ad avviare una consultazione: 

Nel 2013, all’indomani dell’elezione del cardinal Bergoglio, corsero voci che parlavano di rapidi rovesci del Summorum pontificum: «Sono necessarie “cose antiche e cose nuove”», pare che sia stata la risposta del neo-eletto Romano Pontefice al vescovo che sperava di trovare sponda verso una rapida abrogazione del testo. 

Ora però cerchiamo di mettere a fuoco un aspetto importante: quel che a molti vescovi proprio non andò giù, del Summorum Pontificum, fu il fatto che si sentirono scavalcati dal Romano Pontefice – il quale naturalmente ha potestà di intervenire direttamente nella vita della Chiesa, ma che adempirebbe più correttamente il suo compito muovendosi all’interno dell’afflato collegiale. Difatti Benedetto XVI non obbligò nessuno, formalmente: 

Ma si sa che quando il Romano Pontefice ti “prega vivamente” di fare una cosa, e ti prospetta anche che c’è un organismo curiale pronto a sollevarti dall’ingrata incombenza, di solito la cosa finisci per farla. 

Anzitutto, quindi, c’è questa non trascurabile questione, insieme canonica ed ecclesiologica: Benedetto aveva permesso ai gruppi desiderosi di celebrare secondo il Vetus Ordo di non trovare ostacoli nell’Ordinario del Luogo. Fin dal titolo del motu proprio di Francesco, invece, s’intende avvertire che il Romano Pontefice recede dalla suddetta “forzatura”: “I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura…” è diventato “Custodi della tradizione, i vescovi, in comunione con il vescovo di Roma…”. E restano verissime entrambe le cose, come un accordo minore non è meno intonato di un maggiore – salvo che poi una canzone in do minore non è come una in do maggiore… 

Qual è dunque la novità? La palla torna ai Vescovi, evidentemente, (e non alle conferenze episcopali in sé!), e in più viene riscritto l’articolo sulle “due forme” del rito romano, «nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione». Insomma, esistono la “forma straordinaria” e la “forma ordinaria”? Le due espressioni non compaiono nel documento, se non in una nota (e come titoli di due documenti del 2020). La situazione in merito sembra doversi ulteriormente chiarire… 

Per ora resta il fatto che si potrà continuare a celebrare in “rito antico” (si ricordi però sempre che il Messale del 1962 è nella linea di quello riformato dopo il Concilio di Trento, ossia nel modernissimo XVI secolo) solo se il Vescovo non vi si opporrà. Se invece il vescovo non si opponesse, allora egli stesso sarebbe tenuto a non perdere di vista ben sei indicazioni (espresse in altrettanti §§ dell’art. 3): 

Ecco un altro punto delicato, probabilmente quello che – al di là delle ricordate tensioni canoniche – ha portato il successore di Benedetto XVI, vivente il predecessore, a riscrivere il suo provvedimento: invece di fungere da strumenti di bonifica del risentimento anti-romano di fronde parascismatiche, i “gruppi Summorum Pontificum” sono risultati non in pochi casi delle fucine di detto risentimento. 

Questo è quanto, al momento, e si può solo prenderne atto (oltre che, se lo si ritiene utile, pregare…): sia dal punto di vista canonico sia dal punto di vista ecclesiale, la situazione presente è in divenire e bisognerà osservarla ancora nel breve e nel medio-lungo periodo. 

Molto potranno – sembra ragionevole immaginarlo – le lezioni (in termini di decoro, di carità, di fervore…) di quelle diocesi che sapessero destreggiarsi nell’angusto slalom disposto dal motu proprio. Ancora di più, senza dubbio, e con maggiore responsabilità, ci si aspetta da quanti proseguiranno (senza spirito di contesa o – ce ne guardi Iddio! – di revanscismo) con la celebrazione nel Novus Ordo

Così si è spiegato Francesco. E sembrerebbe essere stato piuttosto chiaro… a volerlo intendere. 

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