Gli annunci di lavoro cercano giovani, ma con esperienza quinquennale.
Mio padre cercava una figlia di diciassette anni con le idee chiare sul futuro per capire se poteva portare avanti l'azienda di famiglia.
Il mio parroco cerca giovani seri e responsabili a cui affidare le classi del catechismo.
Non lo so perché, ma i miei requisiti quando ero giovane non rispondevano mai a quelli delle inserzioni di Linkedin, né all'idea che mio padre aveva per il mio futuro. Alla fine, a fare il catechismo ai bimbi di sei anni, anche quest'anno, ci sono i soliti matusa (ma i giovani, lo sanno cosa significa matusa? AAA cercasi qualcuno con esperienza quinquennale che mi aiuti con lo slang) o meglio, i soliti veterani. A questi tre giovani che si sono presentati facciamo fare gli aiutanti almeno per altri…settantasette anni, che dite?
A quanto pare non è andata meglio a Don Alberto Ravagnani che pure si sente ripetere "ah, ma sei un sacerdote giovane, sei prete da solo tre anni, cosa vuoi saperne della vita?"
I giovani devono portare il nuovo, ma avere esperienza del vecchio, avere voglia, ma stare al loro posto (di solito dietro a un adulto). I ragazzi devono dimostrarsi maturi, ma è troppo rischioso affidare loro delle responsabilità.
Allora è un po' come dice Don Alberto Ravagnani, nel suo ultimo video: essere giovani sembra una malattia.
Qualcosa da cui fuggire più che una risorsa da sfruttare.
Che i giovani fanno il loro lavoro: la rivoluzione, lo shock, il nuovo che nessuno ha coraggio di esplorare tranne loro.
I giovani parlano lingue che non capiamo (ci sono migliaia di "buongiornissimo, caffè" sui social a testimoniare quanto poco le capiamo anche se proviamo a starci dentro...e quanto diventiamo cringe, come dice Ravagnani) e quando qualcosa non la capisci è meglio nascondersi dietro a "sono tutte cavolate", "alla loro età io (inserire impresa epica qui), questi sanno solo fare video stupidi col cellulare".
Come se tutta quella forza, quell'energia dovessimo ingabbiarla perché non sappiamo gestirla, perché è troppo, sconvolge i nostri schemi, quel "si è sempre fatto così" in cui sta tutta la nostra sicurezza. Gli status quo costruiti a fatica.
Invece i giovani
continua Don Alberto. Ci sbilanciamo anche noi nel quotarlo e affermare che sì, "la giovinezza a un certo punto finisce". E se è vero che non ci sono più le mezze stagioni, oggi è ancora più vero che non ci sono più adulti che vogliano fare gli adulti. Almeno a vedere i modelli dominanti che girano su TV e social (anche se, per fortuna, non ci sono solo quelli).
Oggi si deve stare al passo coi tempi. Poi vorrei capire i tempi di chi, perché ognuno ha il suo, di tempo, per essere tutto, giovane, bambino, adulto, anziano, ma forse è quello "stare" che ci fa paura. Nell'era dell'utile, del correre verso il prossimo traguardo, ammettere che non possiamo più correre così tanto, non contro i giovani veri (mica le "ragazze" over 70 di cui parla Ravagnani nel video!), ci fa sentire inutili, indietro, improduttivi.
Tutte brutte parole nella società dello scarto dove "è come se la giovinezza fosse l'unica età degna di essere vissuta".
Come dice il Don, a forza di stare dietro a cremine antirughe, lozioni anti caduta, social e compagnia, ragazzi (e dico a voi, ragazzi sopra i 35) non è che avremo perso di vista l'obiettivo per cui stavamo correndo?
A forza di tenere il passo dei giovani, non è che siamo arrivati lunghi? Magari quello che stavamo cercando, il senso della nostra vita, era dieci chilometri fa, tipo.
Ci bastava stare. So-stare. Ma io non so-stare ferma mentre il tempo passa inesorabile, quando fermarsi dal lavoro per prendersi cura di un figlio o di un anziano malato che ci mettono davanti a tutto il senso (e alla bellezza) dell'inutilità è etichettato come "spreco".
Non dobbiamo capire i giovani o vincere alla loro stessa corsa. Dobbiamo sostare sugli spalti, coi cartelloni alla mano, a fare il tifo, a goderci lo spettacolo da fuori. Dobbiamo essere l'abbraccio nella sconfitta, il "proverai di nuovo, vedrai che andrà meglio", dobbiamo essere la mamma che accompagna in discoteca e aspetta al parcheggio fino alle due di notte.
Siamo chiamati a stare nel senso di "esserci": esserci con le nostre risposte di senso, ma dobbiamo averlo trovato noi per primi, quel qualcosa per cui è valso la pena correre. Perché mi piace pensare che ogni campione, sulla linea di partenza, prima di sentire lo sparo, guardi proprio a quegli spalti per cercare l'unico sguardo pieno di fiducia e orgoglio di cui ha bisogno. Ecco, "ragazzi": quello deve essere il nostro, di sguardo.