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Come la scienza torna oggi a riscoprire Dio

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Jean Staune - pubblicato il 16/07/21
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Le rivoluzionarie scoperte scientifiche del XX secolo cambiano la nostra visione del mondo: esse suggeriscono un “re-incantamento del mondo” che permette il ritrovo della scienza e della religione, dopo due secoli di separazione.

Nel 2000, al trapasso fra due secoli e due millenni, era stato chiesto a 200 scienziati che cosa si sarebbe conservato, secondo loro, del XX secolo, e quelli hanno risposto: 

    Come si può credere che un oscuro esperimento fisico possa segnare l’umanità più della morte di 50 milioni di esseri umani? Eppure lo stesso è accaduto anche in passato: nel 1348 l’epidemia di peste nera ha ucciso in pochi anni (1348-1352) più di un terzo della popolazione europea, ma il mondo l’ha dimenticato, mentre conserva chiarissimi i nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio, nonché la fondazione di molte tra le più antiche (e tuttora attive) università europee. 

    Un paio di secoli più tardi, il caso Galilei poteva sembrare d’interesse solo per gli specialisti, ma ha avuto un impatto storico cento volte più forte della scomparsa di milioni di abitanti d’Europa. La lezione che dobbiamo ritenerne è che, nel lungo termine, le sole vere rivoluzioni sono i cambiamenti della visione del mondo. 

    Per i freudiani, con Copernico l’uomo non è più al centro del mondo, ma su di un pianeta che gira attorno a una “stella periferica” situata ai due terzi del raggio di una galassia perduta tra miliardi di galassie. Con Darwin, l’uomo non è più al centro della natura, essendo una scimmia un poco più evoluta. Con Freud, l’uomo non è più al centro di sé stesso perché il suo inconscio diventa più rilevante del conscio. 

    Questa triplice umiliazione dell’uomo viene dalla scienza, dalla conoscenza, che del resto ci ha donato i vaccini, l’elettricità, il nostro attuale tenore di vita eccetera. Non si possono rigettare il progresso o la scienza, ma in essa sta una delle concause del materialismo in Occidente, ed è difficile trovarne altre che siano risultate più determinanti di questa, a tal fine. 

    Non bisogna cercare altrove i fondamenti del materialismo, dell’oblio di Dio e della perdita di senso della società occidentale, perché le scoperte scientifiche hanno un enorme impatto sulle idee che guidano il mondo. Tale impatto è sovente differito – ci vuole il tempo che la società prenda coscienza delle implicazioni filosofiche indotte dalle scoperte – ma è un impatto estremamente profondo, secondo a nessun altro, ed è per questo che è così importante realizzare oggi quanto i progressi scientifici del XX secolo, in tutti i dominî del sapere, hanno dato nuove carte e cambiato radicalmente i dati del problema dei rapporti fra la scienza e la religione. 

    Nella visione dello “scientismo classico”, l’universo è perfettamente determinato e spiegabile: esso è composto di materia, la quale è composta di particelle. Non ha principio né fine: lo si può prevedere, in quanto è determinato, e illustrare. È l’universo di Laplace, il grande fisico meccanico che, dopo aver illustrato a Napoleone il proprio sistema, e sentendosi domandare dall’Imperatore “E Dio in tutto ciò…?” gli rispose: «Sire, non ho avuto bisogno di questa ipotesi». 

    Nell’àmbito della biologia, le mutazioni e la selezione naturale possono spiegare (quasi) perfettamente l’evoluzione della vita sul pianeta. Né manca chi ha cercato di ridurre la coscienza e l’immaginazione a processi biochimici. Il disincanto del mondo è venuto dalla stessa conoscenza. 

    C.P. Snow, un grande scrittore inglese, diceva che ci sia «un fossato tra le due culture» – quella che porta senso, la cultura tradizionale e religiosa, e quella tecnica e scientifica, della quale non possiamo fare a meno. 

    Secondo François Crick, 

    Non bisogna cercare altrove i fondamenti del materialismo e dell’oblio di Dio. Perché gli uomini non credono più in Dio? La sofferenza e l’ingiustizia ci sono sempre state: non c’è causa maggiore, per la perdita della fede in Occidente, della visione dell’uomo e del mondo data dalla modernità e dalla scienza, la quale si trova perfettamente rappresentata da frasi come queste: 

    I capifila di tutta questa scuola di pensiero – del disincanto del mondo, della decostruzione dell’uomo –, la quale in fondo ci dice che nulla è l’uomo e nulla è l’universo, riconoscono bene che in fondo alla loro strada non c’è che la disperazione assoluta, ma dicono che occorre avere la lucidità di accettarlo. 

    «L’umanesimo materialista non può che fallire», diceva intuitivamente Saint-Exupéry, ma non si può radicare questa convinzione senza fondarla su una visione del mondo razionale e scientifica, che permetta di provare la compatibilità fra scienza e religione. Questo è il problema fondamentale. 

    Se le persone credono che la vita non è che «un materiale da gestire», che siamo come frammenti di legno alla deriva sul pelo dell’acqua, allora tutto quanto si possa dire in contrario scivolerà sugli spiriti come l’acqua sulle penne di un’anatra. Non arriverà a incidere. 

    Nell’àmbito della materia, la fisica quantistica ha spazzato via la pretesa di Laplace e dei positivisiti, cioè quella di poter illustrare ogni cosa con un modello deterministico e materialistico: oggi sappiamo dal principio di indeterminazione di Heisenberg che esiste un limite assoluto alla conoscenza che possiamo avere del mondo che ci circonda (non si possono determinare con precisione e al contempo la velocità e la posizione di una particella), e sappiamo dall’esperimento della comunicazione istantanea tra due particelle distanti (la non-separabilità, o “paradosso EPR”) che esiste una realtà al di là dello spazio-tempo: l’universo non si spiega da sé stesso, non è ontologicamente autosufficiente. 

    Che cos’è la materia? Qual è il suo fondamento? Nel 1926 Heisenberg dimostrò che se si conosce con precisione la posizione di una particella non si può conoscere la sua velocità – e viceversa. C’è un’incertezza fondamentale che concerne ogni particella dell’universo: è esattamente il contrario di quanto pensava Laplace, il quale nella sua prospettiva deterministica pensava che se si potessero conoscere tutte le posizioni di tutte le particelle e tutte le leggi che le fanno interagire potremmo conoscere il futuro dell’universo. Einstein aveva lungamente dubitato di questa rivoluzione concettuale: «Dio – diceva – non gioca a dadi…». Gli esperimenti, però, hanno confermato questa rivoluzione. 

    L’esperimento di Aspect a Orsay (A. Aspect e P. Grangier, G. Roger, Phys. Rev. Lett, 49, 91 – 1982), e tutti quelli svolti in seguito, hanno permesso di verificare che se si lancia un sistema di due particelle correlate in due direzioni opposte, la misura dell’una perturba istantaneamente l’altra, come se le due particelle comunicassero in maniera istantanea. Ora, la relatività generale di Einstein impedisce che qualcosa vada più veloce della luce… Quale sarà dunque il nesso che lega le particelle? 

    Di fatto, il formalismo della fisica quantistica ci insegna che le due particelle formano una sola entità, quale che sia la distanza che le separa! Le due particelle costituiscono dunque un sistema che trascende il tempo e lo spazio. Si tratta del primo fenomeno dimostrato sperimentalmente che si colloca al di là del tempo, dello spazio, dell’energia e della materia, e che però ha delle conseguenze nel nostro mondo. Come ha detto Nicolas Gisin, direttore del dipartimento di Fisica all’Università di Ginevra: 

    Le visioni tradizionali affermavano l’esistenza di altri livelli di realtà (quella degli angeli, degli spiriti, degli antenati). La Modernità ha reso obsolete tali credenze: per essa, tutto quello che esiste è individuabile e misurabile. Dimostrando però il carattere non-ontologico del livello di realtà in cui si situa il nostro universo, esperienze come quella della non-separabilità descritta nel paragrafo precedente riaprono vie filosofiche che si credevano interrotte. 

    La cosa più importante, poi, è che qui è la scienza stessa a dimostrare i propri limiti (si veda ad esempio B. d’Espagnat, « Théorie quantique et réalité », Pour la Science n. 27, gennaio 1980 e À la recherche du réel, Gauthier Villars, 1979 – ristampa Dunod, 2015), non la filosofia o la metafisica. Ciò costituisce un cambiamento della visione del mondo comparabile all’emergere della scienza moderna quattro secoli prima, con Copernico, Keplero e Galilei. 

    Nell’àmbito dell’astrofisica, l’idea di un universo eterno è stata abolita dalla scoperta del “Big Bang”, la quale al contempo torna a porre pure la questione di Dio, perché c’è stato un momento in cui non c’era tempo né spazio (da dove viene l’Universo?) e perché si è potuto calcolare che, se la vita era possibile, essa lo era grazie al fatto che quella quindicina di costanti e le leggi fisiche che reggono l’Universo sono disposte in maniera incredibilmente fine (e chi le ha disposte così?). 

    Nel XX secolo abbiamo scoperto che l’universo ha una storia e che è regolato perché la vita possa farvi la sua comparsa. Il tempo e lo spazio non sono più assoluti, sono relativi: essi possono dunque non essere sempre esistiti. La teoria detta “del Big Bang” ci dice che quando si risale all’origine tutto l’universo che noi oggi osserviamo era concentrato in uno spazio di 10-33 cm e aveva una temperatura di 1032° C, 10-43 secondi dopo l’inizio del tempo. Parlare di un “prima” non ha senso, perché il tempo non esisteva. Poi c’è una piramide di complessità che si è elaborata, dal Big Bang fino al cervello umano, che è l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto. 

    Come spiegare tutto questo? L’universo è retto da una quindicina di costanti fondamentali e da leggi fisiche regolare in maniera incredibilmente fine, e se così non fosse ogni vita – ogni complessità – sarebbe impossibile. Trinh Xuan Than, buddista, è giunto così all’idea di un “principio creatore” (che tuttavia non appartiene alla sua cultura e alla sua tradizione religiosa!): per via dell’esistenza di questo assetto e della debolissima probabilità che la vita sia possibile (si vedano i suoi libri: La Mélodie secrète, Fayard, 1988, et Le Chaos et l’Harmonie, Fayard, 1998): 1 possibilità su 10 elevato alla 60ª – più o meno come la probabilità di colpire un bersaglio di un centimetro quadrato posto all’altro capo dell’universo (se poi ce n’è uno solo) tirando una freccia a caso. Per fare a meno del principio creatore bisogna postulare un’infinità di universi paralleli al nostro, ciascuno con regole differenti, il che significa che siamo al punto in cui sono i materialisti a dover postulare delle entità non-osservabili! L’ironia dell’epistemologia! 

    Per due secoli si è detto ai credenti che Dio era un’ipotesi inutile, e che si poteva spiegare perfettamente il mondo a prescindere da Dio. Monod diceva che la questione della finalità era stata perpetuamente bandita, nel campo scientifico, ma 10 anni dopo la sua morte la scienza è tornata a porla. 

    La questione di Dio torna ora ad essere una questione scientifica: ciò non significa che la scienza “dimostra Dio”, ma che la questione di un creatore torna ad essere una questione scientifica, e la risposta resta di ordine personale (in alternativa si può scegliere di credere all’esistenza di un’infinità di universi paralleli). 

    È una cosa sbalorditiva e quasi rivoluzionaria, in rapporto alla scienza classica. Ancora di più, il principio filosofico del “rasoio di Occam” (privilegiare le spiegazioni più semplici, non aggiungere ipotesi inutili) sembra porgere oggi il manico (e non la lama) ai credenti, poiché gli atei sono obbligati a postulare un’infinità di universi paralleli per evitare di porsi (ovvero di accettare) l’ipotesi di un principio creatore. 

    Nell’àmbito della neurologia, la visione dell’uomo condizionato soltanto dai suoi neuroni e dalla chimica del suo cervello, donde emergerebbe la coscienza, viene rimessa in questione. Secondo le concezioni più comunemente diffuse, e in particolare quella di Changeux, si postulava l’identità di “neuronale” e “mentale”: se conosco perfettamente lo stato del vostro cervello, saprò che cosa state pensando in questo momento e anche che cosa penserete fra un minuto. 

    La conoscenza totale dello stato dei neuroni del cervello permetterebbe di conoscere il vissuto del soggetto. Ciò si basa sull’ipotesi che la nostra coscienza sarebbe interamente riducibile a processi neuroni. Alcuni esperimenti hanno permesso però di mettere in luce un funzionamento del cervello più sottile, ed è anche il caso delle EMI (esperienze di morte imminente). 

    La natura della persona umana è una questione-chiave per il XXI secolo, è un dibattito culturale assolutamente centrale: sono strettamente riducibile ai processi che si svolgono nel mio cervello… o no? Perché se siamo assimilabili a processi riproducibili da macchine, saremo sostituiti da macchine. È la scommessa di quanti, come Ray Kurzweil, affermano che l’intelligenza delle macchine non soltanto arriverà al livello di quella umana, ma la supererà. Ci sono però degli argomenti per dire che nell’umano c’è più di quanto le neuroscienze possano trovare. 

    Gli esperimenti mostrano che il cervello è già in azione qualche centesimo di secondo prima che una decisione sia presa: significa che il nostro inconscio è più importante del conscio? Esiste tuttavia una decisione sulla modalità del veto che arresta o lascia correre al loro termine i processi iniziati inconsciamente. Benjamin Libet ci dice: «Siamo liberi, almeno in rapporto al veto» (L’Esprit au-delà des neurones, une exploration de la conscience et de la liberté, Dervy, 2012). 

    Allora si può postulare che lo “spirito” riprenda il controllo del cervello: è un po’ come un arbitro in una partita di calcio, che “non fa niente” e non tocca mai la palla, ma che continuamente prende libere decisioni e ha un’influenza diretta e decisiva sull’esito della partita. In tribunale, se il mio cliente ha ucciso suo padre, non posso fondare l’arringa difensiva sulla pretesa che egli fosse determinato a farlo, perché pochi secondi prima di uccidere il padre poteva non farlo. Altri esperimenti, come quello di Jean-François Lambert su dei monaci tibetani in meditazione, mostrano che si può conoscere lo stato neuronale di un soggetto senza conoscerne lo stato mentale. 

    A oggi, non abbiamo alcuna nozione chiara sull’emergere della coscienza: ci sono ovvero tante teorie per spiegare come la coscienza possa emergere dai neuroni… tante quanti sono gli specialisti del settore; il che prova come, malgrado gli enormi progressi realizzati, non abbiamo ancora alcuna risposta al tema fondamentale, quello della nostra stessa natura. Tutte queste teorie sono basate sull’ipotesi che il cervello produca la coscienza: e se si stesse cercando nella direzione sbagliata? Se invece esso funzionasse come una postazione radio, che non produce la musica ma che è necessario perché essa si senta? Alcune “esperienze extra-corporali” in caso di “morte clinica” sembrano suggerirlo (Eben Alexander, La Preuve du Paradis, Guy Trédaniel, 2013). 

    Quanto al campo delle Scienze della vita, la scoperta di casi di riproducibilità dell’evoluzione, come ad esempio la generazione di elementi di un “occhio fotografico” come il nostro in tutta una serie di animali il cui antenato comune non aveva affatto occhi impone l’idea di una canalizzazione dell’evoluzione verso forme funzionali che sarebbero «pre-determinate già dal Big Bang», come ha avuto a dire il paleontologo Simon Conway Morris. 

    Se gettate delle biglie dalla cima di una collina, sapete in anticipo le traiettorie che quelle biglie sono suscettibili di prendere. È un po’ lo stesso che si constata nel dominio dell’evoluzione: l’idea è che il caso sia irreggimentato. Il darwinismo aveva detto il contrario, cioè che lo “spazio dei possibili” sarebbe gigantesco, frutto di miliardi di miliardi di miliardi di mutazioni successive, con ogni volta uno smistamento per selezione naturale, e in tal caso la probabilità di avere due esseri identici nell’universo è statisticamente quasi impossibile. 

    Quando è uscito il film Avatar, un darwinista ha scritto (scherzando) su Le Monde che James Cameron aveva perpetrato «un crimine contro il darwinismo», perché gli abitanti di Pandora assomigliano troppo agli umani; io gli risposi sullo stesso tono che, al contrario, il regista era stato visionario, perché la sua concezione è quella di una biologia nuova, detta “strutturalista”, nella quale ciò che concerne le grandi strutture degli esseri viventi deriva dalle leggi dell’universo e non dalla selezione naturale. 

    Altri progressi ci mostrano che la realtà è molto più complessa di quanto si credesse: si è scoperto che nel genoma umano ci sono meno geni che in un chicco di riso: il DNA non funziona come le istruzioni di montaggio di un Boeing 747. L’epigenetica mostra che i geni si esprimono differentemente a seconda del contesto in cui sono: la genetica non è tutto, il caso ha una portata limitata (esso spiega bene il funzionamento del sistema immunitario, ad esempio, ma in molti altri casi si rivela inadeguato). 

    La nostra comparsa, dunque, non sarebbe un epifenomeno: essa s’iscriverebbe nelle leggi dell’universo. L’adattamento è una maschera dietro la quale c’è una struttura comune a numerosi esseri viventi. La dimensione del collo della giraffa proviene da un processo totalmente darwiniano, ma la struttura dell’animale con le sue quattro zampe no. Tutti i cristalli di neve sono differenti, ma tutti sono strutturati in sei rami. C’è una maschera adattiva dietro la quale stanno gli archetipi: l’evoluzione segue leggi naturali e non si svolge soltanto per il caso di mutazioni imposte dalla selezione naturale. 

    Con questa visione, andiamo ben al di là di Darwin: la vita corrisponde ad archetipi fondamentali che sono iscritti nelle leggi della natura, e questo non è né creazionismo né darwinismo, ma un’evoluzione orientata verso strutture predeterminate verso una sempre maggiore complessità. 

    In una simile visione dell’evoluzione, esseri come noi dovevano emergere, prima o poi, su un pianeta o su un altro. E così, spiega Christian de Duve, «Dio gioca a dadi perché è sicuro di vincere». Altrimenti detto, «la vita è un imperativo cosmico», o ancora: 

    L’idea di convergenza è molto importante. Per “convergenza” intendiamo il caso di un essere portatore di un organo e di un altro portatore del medesimo organo, ma il cui antenato comune (al primo e al secondo) non ne ha: ad esempio, lo si accennava, l’occhio umano. L’occhio degli insetti è molto differente, mentre una specie di lumaca marina ha un occhio assai simile al nostro, anche una specie di ragno e perfino una specie di medusa – allorché esso neppure le serve (non ha neanche il cervello!). 

    Uno dei più grandi paleontologi attuali, Simon Conway Morris, nel suo libro sull’evoluzione della vita, ci mostra almeno 70 esempi di questo tipo (Simon Conway-Morris, Life’s solution, Cambridge University Press, 2003). E precisa: 

    L’esistenza di convergenze che conducono a risultati identici per vie differenti sostiene l’idea sviluppata, fra gli altri, da Michael Denton, quella per cui le forme delle strutture complesse vengono prodotte dalle leggi della natura e non dalla selezione naturale (Michael Denton, Craig Marshall, Michael Legge, « The protein folds as platonic forms : new support for the pre Darwinian conception of evolution by natural laws », Journal of Theoritical Biology, 2002, p. 325-342). 

    Gli anti-darwinisti dicono da due secoli che l’occhio è un fenomeno troppo complesso perché sia emerso a caso. È però possibile mostrare tutti gli stadi che esistono tra occhi estremamente primitivi, senza cristallino, fino a un occhio perfetto quanto il nostro. Se il darwinismo non funziona, è perché indiscutibilmente l’occhio esiste! L’idea di convergenza evoluzionistica indica che il numero delle alternative è strettamente limitato, vale a dire che il cammino è canalizzato. 

    Il darwinismo spiega molte cose, ma le grandi strutture – come quelle dei primati – sarebbero iscritte nelle leggi della natura. Ecco perché Simon Conway Morris può scrivere una frase provocatoria come questa: «Le forme funzionali sono predeterminate a partire dal Big Bang». Ciò vuol dire che l’evoluzione non si svolge a caso: essa è incanalata verso forme predeterminate, e questo cambia molte cose. 

    In ultimo, nel campo delle matematiche: anche qui il teorema di Gödel impone una nuova visione del mondo, dimostrando che ogni sistema logico umano coerente è necessariamente incompleto, e che la nozione di verità è più vasta della nozione di dimostrabilità, aprendosi all’esistenza di un «mondo degli oggetti matematici» col quale lo spirito umano potrebbe entrare in contatto. 

    L’uomo è superiore al computer perché ha accesso al mondo dei concetti matematici. 

    Alain Connes, agnostico, sostiene la tesi per la quale le matematiche sono un continente che preesiste e che l’uomo scopre, come l’America o l’Australia. Questa concezione si oppone all’idea che le matematiche vengano “inventate” (in senso non-etimologico), e alcuni atei come Jean-Pierre Changeux sono tra quanti le sostengono. 

    Per loro, sostenere una tesi siffatta costituirebbe un vero tradimento della ragione, della laicità e dell’esprit des Lumières: malgrado la pressione di Changeux, però, Connes resiste. Sì, le matematiche preesistono eccome alla loro scoperta da parte dell’uomo. Ecco come risponde al collega: 

    Non è un mistico che scrive da una remota cella monastica, colui che parla così: è un grande matematico agnostico che descrive come fa il proprio mestiere di matematico, vale a dire come scopre la verità… nelle matematiche. 

    Questa posizione è condivisa da colui che ha dimostrato il grande teorema di Fermat: Andrew Wiles, che ho incontrato a Princeton. I matematici sono in contatto con un altro mondo. I mistici pure pretendono di essere in contatto con un altro mondo. Di sicuro non è lo stesso. Ma… se dà retta ai primi… perché non concedere qualche credito alle affermazioni dei secondi? 

    Si è sempre pensato che la logica dovesse fondarsi su sé stessa, perché l’aritmetica si fonda sulle matematiche e le matematiche sulla logica; se la logica si fonda su sé stessa, il sistema è chiuso in sé – dunque è completo e coerente. Ciò era parte di un grande progetto che il matematico David Hilbert aveva chiamato “la soluzione finale” (era prima del nazismo!) al problema della logica. Se il progetto avesse avuto successo, si sarebbe potuto dire – davanti a qualunque proposizione logica – decidere “è vero” o “è falso”. Il teorema di Gödel dimostra invece che ogni sistema logico (compreso quello dell’aritmetica), se è coerente, è incompleto. È un teorema che ha enormi conseguenze filosofiche. 

    La nozione di incompletezza era vissuta come qualcosa di negativo, ma al contrario essa è motrice, perché è proprio in virtù del “gioco lasciato al/dal sistema” che non è possibile padroneggiarlo e che è possibile invece una storia. Ci piacerebbe un mondo completo, ma l’idea di incompletezza fondamentale e fondatrice è una chiave per comprendere la nuova visione del mondo, come ha scritto padre Thierry Magnin (L’Expérience de l’incomplétude, Lethielleux-DDB, 2011). 

    Un’altra conseguenza del teorema di Gödel è che ci sono delle verità che possiamo percepire laddove esse non sono dimostrabili nel sistema dato. In ogni sistema logico, c’è necessariamente qualcosa di vero ma di non dimostrabile nello stesso sistema di riferimento. E allora come facciamo a sapere che è vero? Senza dubbio per una percezione di tipo platonico, come per l’accesso alla verità in matematica. 

    L’assimilazione progressiva, da parte delle nostre società, delle scoperte fondamentali come questi principî di incertezza, di incompletezza, di non-predittibilità, cambierà radicalmente la nostra visione del mondo: una rivoluzione concettuale imposta dalla scienza stessa è in marcia, e aprendo il “campo dei possibili” essa è suscettibile di condurre a un re-incantamento del mondo che può avere un enorme impatto sul destino delle nostre società. 

    L’uomo di scienza deve risolversi ad abbandonare la sua visione “classica” prometeica: Laplace diceva di non aver bisogno di Dio, Hilbert cercava la “soluzione finale” che fondasse ogni logica in maniera incontestabile, Changeux affermava l’identità fra “neuronale” e “mentale”: tutte queste concezioni si sono sgretolate. Una vera rivoluzione concettuale ha sconvolto questi àmbiti. 

    C’era una visione classica, l’abbiamo detta “prometeica” perché l’uomo voleva mettersi al posto di Dio: era l’ottica di Laplace, Hilbert e pure di Changeux. Si è rivelata chimerica per delle ragioni squisitamente scientifiche: è la scienza stessa che ha guidato alla soluzione per il problema da lei creato – il disincanto del mondo. E ci sono delle interpretazioni filosofiche da sviluppare, a cascata, ma il cambiamento in sé viene dalla scienza. 

    Il XX secolo ha conosciuto una straordinaria rivoluzione nella maggior parte degli àmbiti del sapere: si è passati dal tempo e dallo spazio assoluti di Newton alla relatività dello spazio-tempo di Einstein, che fa posto alla teoria “del Big Bang” di Le Maître; si è passati dal determinismo di Laplace, che non aveva bisogno di Dio, al principio di indeterminazione di Heisenberg, che genera la misteriosa non-separabilità quantistica, al di là dello spazio e del tempo; si è passati dalla “soluzione finale” vagheggiata da Hilbert in merito alla completezza della logica ai teoremi di incompletezza di Gödel, che la negano definitivamente; si è passati dalla selezione naturale di Darwin alle idee di una riproducibilità dell’evoluzione sotto l’influsso di forme fondamentali che sarebbero determinate già prima del Big Bang; si è passati dall’analisi degli equilibri della chimica classica dell’epoca di Berthelot all’analisi degli squilibri e alla teoria del caos; si è passati dall’uomo neuronale di Changeux all’affermazione dell’uomo portatore di libero arbitrio di Benjamin Libet (cf. J. Staune, Notre existence a-t-elle un sens ?, Presses de la Renaissance, 2007). 

    Le conseguenze filosofiche di questa rivoluzione sono le seguenti: 

      Il nostro mondo non si spiega da sé solo. Incertezza, incompletezza, non-predittibilità: questa negazione è incisiva, rivelandosi costruttiva e non distruttiva, e porta all’umiltà. Rigettando il dogmatismo (ho la verità e ora ve la spiego) e il relativismo (tutte le opinioni si equivalgono), esso ben si accorda con l’affermazione secondo la quale esiste, sì, na verità, ma nessun uomo o gruppo di uomini può possederla, anche se può avvicinarvisi più o meno a seconda dei casi – il che ci rimanda al mito della caverna… 

      Ci sono, in sintesi, tre posizioni teologiche sulla questione dei rapporti fra scienza e religione: 

        Il nuovo paradigma scientifico restituisce grande credibilità alla concezione religiosa. Tutte le religioni dicono da secoli che c’è un altro livello di realtà al di là dello spazio, del tempo e della materia, e che lo spirito dell’uomo attiene a quest’altro livello. La Modernità aveva reso assurda una tale concezione: stando ad essa, nient’altro che il mondo materiale sarebbe davvero esistito. Il nuovo paradigma scientifico, invece, restituisce sorprendentemente una credibilità alla prospettiva religiosa. 

        La scienza risponde oggi affermativamente a quattro questioni essenziali: 

          Ecco, oggi si può rispondere “sì” a tutte queste domande, e ciò cambia tutto: come diceva Pasteur, «un po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a lui». E dunque una nuova sintesi fra scienza e spiritualità è possibile, e conduce a un re-incantamento del mondo. Abbiamo questa speranza per il XXI secolo: quella di colmare il fossato tra le due culture – la scientifica e la religiosa – e di ristabilire una visione del mondo che benefici del soffio della trascendenza e della solidità della ragione. 

          [traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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