Come già accaduto per l’Irlanda, anche per il Canada i titoli dei giornali evocano scenari inquietanti, ed è facile, per il lettore sconcertato, cadere negli opposti estremi di gridare ai “crimini della Chiesa” o di levarsi a difendere dal “fango” quanti si sono certamente spesi con generosità nelle missioni o negli istituti.
Il tempo in cui viviamo vuole risposte rapide e nette, più di quanto le voglia “vere”; eppure davanti a vicende complesse, che si dipanano in archi temporali molto lunghi e che coinvolgono attori diversi, l’unica possibilità per conoscere quanto è davvero accaduto è fermarsi, prendere tempo, studiare.
Se per quanto avvenuto in Irlanda una fonte preziosa è il “Final Report” della Mother and Baby Homes Commission of Investigation pubblicato a ottobre 2020, per comprendere la vicenda delle residential schools canadesi non si può prescindere dalle conclusioni della Truth and Reconciliation Commission of Canada (TRC) – istituita dal c.d. Indian Residential Schools Settlement Agreement – che ha pubblicato nel 2015 una serie di report molto dettagliati, riassunti in un documento dal titolo “Honouring the truth, reconciling for the future”.
Questi documenti consentono di ricostruire la storia delle scuole residenziali canadesi, ci permettono di ascoltare le esperienze dei survivors, e ci interrogano sui passi necessari da compiere verso una memoria condivisa e una possibile riconciliazione.
Le c.d. residential schools sono esistite in Canada per oltre 100 anni.
Prima di discutere di quali fossero le concrete condizioni di vita, è necessario comprendere che questi istituti sono nati con lo scopo dichiarato di allontanare i minori Aborigeni dalle loro famiglie e dalle loro comunità e di indebolire i legami con la loro cultura e la loro identità, per “assimilarli” alla nuova cultura “europea” dominante nel Paese.
Se infatti per l’educazione dei bambini Nativi si fossero privilegiate scuole collocate nelle riserve, disse candidamente il Primo Ministro canadese nel 1883 (anno ufficiale di inizio del programma), questi avrebbero continuato a vivere con i genitori, circondati da “selvaggi”, e – pur ricevendo un’istruzione – sarebbero diventati semplicemente «selvaggi che sanno leggere e scrivere».
Già prima della nascita della nazione canadese, le diverse Chiese (Cattolica, Anglicana, Metodista, Presbiteriana…) avevano iniziato a costruire scuole per i Nativi (in genere piccole scuole, collocate vicino alle comunità indigene): il Governo canadese ritenne di avvalersi della loro collaborazione, costruendo scuole più grandi – lontane dalle riserve – o acquistando dalle chiese le vecchie scuole; gli istituti erano quindi finanziati dallo Stato, ma gestiti da enti religiosi.
La collaborazione con le confessioni religiose continuò fino al 1969; la maggior parte delle scuole (passate alla gestione statale o – più raramente – degli stessi Nativi) furono chiuse entro gli anni ’80, ma le ultime restarono operative fino alla fine gli anni ’90.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni ’90 del Novecento, circa 150.000 bambini furono inviati in circa 140 residential schools; circa 80.000 persone che hanno trascorso un periodo in questi istituti sono ancora in vita ai nostri giorni.
Il modello non era certo quello dei collegi frequentati dai figli delle élites britanniche e canadesi, quanto piuttosto quello delle industrial schools e dei riformatorî destinati, in Europa e in Nord America, ai figli dei poveri (vi dice niente “Oliver Twist”?), o quello delle boarding schools già in uso da metà Ottocento negli Stati Uniti per i Nativi Americani.
Inizialmente, l’iscrizione era volontaria; tuttavia, se le autorità ritenevano che un ragazzino “Indiano” tra i sei e i sedici anni non ricevesse cure ed educazione adeguate dalla famiglia, potevano ordinare che fosse collocato in un istituto. Le scuole residenziali avevano anche la funzione di orfanotrofi e, in tempi più recenti, non pochi bambini vi venivano inviati dai servizi sociali, che soprattutto negli anni ’60 e ’70 tolsero molti minori alle famiglie native (c.d. “Sixties Scoop”), affidandoli a famiglie bianche o agli istituti.
Di fatto, anche quando il bambino era collocato in una residential school per volontà dei genitori (i quali spesso la consideravano l’unica opportunità per i figli di ricevere un’istruzione), difficilmente poteva allontanarsene senza il consenso delle autorità, e sempre più la tendenza fu di rendere obbligatoria la frequenza, con sanzioni (fino al carcere) per i genitori inadempienti.
A partire dal 1920, il Dipartimento degli Affari Indiani aveva formalmente l’autorità di inviare qualsiasi bambino in età scolastica presso una scuola diurna o una scuola residenziale; se un minore si allontanava senza permesso o non rientrava dopo le vacanze, era possibile ricorrere alla forza pubblica per ricondurlo a scuola.
A prescindere dalla buona volontà del personale che operava in queste scuole (alcuni insegnanti e inservienti facevano il possibile e sono ricordati con affetto dai testimoni), e senza considerare i casi di veri e propri abusi, la vita era senza dubbio molto dura per i bambini nelle residential schools.
Innanzitutto, subivano un grave trauma venendo allontanati bruscamente dalle loro famiglie e inviati in luoghi sconosciuti. Spesso non conoscevano l’inglese o il francese che si parlava nelle scuole, ma solo le lingue native, che in molti istituti erano proibite: l’impossibilità di comunicare rendeva i primi tempi un’esperienza sconcertante e spaventosa per bambini anche molto piccoli (4 o 5 anni).
Abituati a una vita libera, all’aperto (alcuni sopravvissuti raccontano con nostalgia i primi anni di vita nomade, al seguito dei genitori cacciatori o pescatori), erano costretti ad adattarsi all’improvviso ad una vita molto irregimentata, con regole che spesso non erano in grado di capire.
Il cibo, oltre ad essere spesso insufficiente (moltissimi ex alunni raccontano di aver avuto sempre fame) e di scarsa qualità, era totalmente diverso da quello a cui erano abituati.
Dovevano lavorare per aiutare nella gestione della scuola e nelle attività agricole, e talvolta si verificavano incidenti sul lavoro.
La disciplina era molto severa. Naturalmente parliamo anche di epoche diverse, in cui le punizioni corporali erano comunemente praticate (ancora oggi, peraltro, non sono del tutto illegali nelle scuole canadesi); tuttavia i documenti e le testimonianze evidenziano come quelle inflitte nelle residential schools non fossero regolamentate ed eccedessero non di rado i limiti dettati per le scuole pubbliche.
Molti sopravvissuti raccontano di vere e proprie violenze (anche di lesioni permanenti, come la perdita dell’udito in seguito a percosse), spesso accompagnate da pubbliche umiliazioni. Un ulteriore shock era dovuto al fatto che le punizioni fisiche non erano molto diffuse tra i genitori indigeni, e che molti bambini le sperimentavano per la prima volta.
Il personale era scarso, non accuratamente selezionato né supervisionato in maniera appropriata; gli istituti cattolici si avvalevano dell’opera dei religiosi, mentre quelli protestanti impiegavano missionari laici; gli uni e gli altri spesso non erano adeguatamente formati all’insegnamento, mentre il personale esterno era mal pagato e ci si doveva “accontentare”: in un tale contesto, ben poteva esserci chi approfittava della situazione per abusi di potere più o meno gravi.
Molte testimonianze riferiscono di abusi sessuali, da parte di membri del personale che si guadagnavano con gentilezze e piccoli doni la fiducia dei bambini appena arrivati, traumatizzati dalla separazione dalla famiglia e dal difficile adattamento alla vita negli istituti; talvolta si trattava di vere e proprie aggressioni sessuali e violenze. Se i minori trovavano il coraggio di confidarsi, spesso le famiglie (soprattutto quelle convertite al cristianesimo) non credevano ai loro racconti, e solo di rado i casi di abusi venivano denunciati e perseguiti.
È emerso anche che, in alcune scuole, i bambini furono oggetto di ricerche scientifiche (ad esempio, sulla malnutrizione), senza il consenso delle famiglie e con conseguenze negative per la loro salute.
Lo stato di cose che abbiamo provato a descrivere ha provocato la morte di bambini? Si può dire che, in questi istituti, i bambini venivano “uccisi”?
Il Report della TRC evidenzia che è difficile ricostruire i numeri esatti di quanti sono deceduti mentre frequentavano le residential schools.
Gli obblighi di documentazione dei decessi a carico degli istituti, infatti, non erano sempre chiari, e le norme federali consentivano di distruggere i registri dopo un tempo relativamente breve; i documenti che esistono non sono dettagliati (ad esempio riportano il numero dei morti ma non i nomi; nel 50% dei casi non è indicata la causa della morte).
I registri riportano circa 3.000,00 morti; la TRC ipotizza che possano essere all’incirca il doppio.
Dai documenti esistenti, è comunque possibile evidenziare che, almeno fino agli anni ’50, la mortalità tra gli allievi delle residential schools era molto più elevata di quella del resto della popolazione, e in particolare dei bambini della stessa età.
È un dato simile a quello delle Mother and Baby Homes irlandesi, ed effettivamente anche le cause sembrano analoghe: la prima causa di morte indicata è la tubercolosi, seguita da influenza, polmonite e altre malattie polmonari.
Il governo canadese credeva di poter spendere pochissimo per mantenere le scuole (grazie al lavoro semi-gratuito dei missionari e alla manodopera degli studenti stessi) e non era preparato a sostenere i costi necessari per gestire adeguatamente il sistema: di conseguenza, gli edifici erano costruiti con materiali di scarsa qualità e non ricevevano manutenzione adeguata; molti erano mal riscaldati e mal ventilati, e sempre sovraffollati, il che favoriva il dilagare di epidemie. Non vi erano procedure adeguate per isolare gli studenti che si ammalavano, e pochi istituti avevano personale sanitario qualificato che potesse fornire cure mediche adatte (che peraltro, fino a un certo momento storico, neppure esistevano).
Un certo numero di studenti è rimasto vittima di incendi (almeno 53 scuole furono distrutte dalle fiamme), anche a causa delle scarse misure di sicurezza, o di altri incidenti.
Altri ancora sono morti o scomparsi dopo essere scappati da scuola.
I testimoni raccontano diversi casi di suicidio e addirittura qualche caso di sospetto omicidio.
A differenza di quanto potrebbero far pensare le recenti scoperte (tra maggio e giugno sono stati ritrovati i resti di 751 corpi sul terreno della “Marieval Indian Residential School”, 182 tombe anonime presso la “St. Eugene’s Mission School” e 215 nei pressi della “Kamploos Indian Residential School”); però il fatto che vi fossero sepolture vicino alle scuole non è mai stato un “segreto”.
Le scuole più antiche erano collocate all’interno di missioni, che includevano una chiesa, una fattoria, e anche un cimitero dove erano seppelliti sia i religiosi che gli altri membri della comunità; altre scuole seppellivano i propri defunti in vicini cimiteri municipali o in locali cimiteri della denominazione religiosa di appartenenza.
Quando a morire era un allievo, la politica del Dipartimento degli Affari Indiani era di porre le spese di sepoltura a carico delle scuole, che in genere non inviavano le salme presso le comunità di origine (neppure quando i genitori lo chiedevano espressamente), perché il trasporto era considerato troppo costoso. Spesso le famiglie non venivano correttamente informate delle cause della morte, e neppure circa i luoghi di sepoltura.
I giornali hanno spesso usato l’espressione “fosse comuni”, ma questa forma di sepoltura risulterebbe essere stata utilizzata solo in caso di epidemie (ad esempio quella di influenza del 1918-1919), quando la mortalità era altissima e non era materialmente possibile scavare tombe individuali. Dalle testimonianze, non sembrerebbe neppure che la sepoltura avvenisse senza riguardi per le salme: una delle ex allieve racconta che durante un’epidemia di tubercolosi, quando moriva circa una ragazzina al mese,
È vero, però, che – se alcuni cimiteri sono stati mantenuti e sono ancora esistenti – altri, dopo la chiusura delle scuole, sono rimasti abbandonati; poiché le sepolture erano in genere indicate con semplici croci di legno (mentre quelle dei religiosi spesso recavano vere lapidi, con data di nascita e morte), nel tempo se ne è persa traccia.
Alcune scuole sono state distrutte da incendi o demolite e ricostruite altrove anche più volte, e la loro collocazione originaria (e l’esistenza di eventuali cimiteri annessi) non sempre è documentata.
In alcuni luoghi può essere cresciuta della vegetazione o possono essere stati costruiti altri edifici; talvolta non è neppure chiaro chi siano i proprietari dei terreni.
Alcuni studenti (soprattutto a partire dal ventesimo secolo) sono deceduti in ospedale, e le salme possono essere state sepolte nel cimitero locale.
La storia di alcuni luoghi di sepoltura è complessa: le tombe anonime ritrovate alla St Eugene’s, per esempio, non si trovavano in un luogo abbandonato, ma sono state scoperte durante dei lavori all’interno del cimitero locale, che esiste dal 1865; a partire dal 1874, dopo che è stato aperto un ospedale, vi sono stati seppelliti anche i pazienti deceduti; la scuola è stata aperta solo nel 1912 ed è esistita fino al 1970. Non è pertanto certo, per ora, a chi appartengano le tombe.
È fondamentale poter chiarire il più possibile quanto accaduto, e soprattutto che le famiglie che non hanno più avuto notizie dei loro cari possano conoscerne la sorte e i luoghi in cui sono sepolti. Proprio a tale scopo, da diversi anni si svolgono accurate indagini anche con l’ausilio di nuove tecnologie un tempo non disponibili (satelliti, radar, etc): ricerche che hanno portato ai recenti tristi ritrovamenti, la cui notizia ha riaperto vecchie ferite non ancora rimarginate, e suscitato l’interesse dei media del tutto il mondo.
Si è molto parlato delle “scuse” richieste alle Chiese, e in particolare a quella Cattolica (che gestiva la maggior parte degli istituti), per quanto accaduto nelle residential schools.
Le varie denominazioni protestanti, gli ordini religiosi cattolici che gestivano le scuole e i vescovi locali (così come il Governo canadese) hanno in realtà da tempo espresso il proprio rammarico per quanto accaduto, formalizzando delle scuse e impegnandosi a sostenere i Nativi nella loro domanda di giustizia; molte diocesi canadesi sono oggi attivamente impegnate con le comunità indigene in un cammino di riconciliazione.
Non vi è stata una dichiarazione ufficiale della Santa Sede, ma già nel 2009 Benedetto XVI ha ricevuto alcuni leader Aborigeni, esprimendo la propria sofferenza e solidarietà per le loro sofferenze: si è trattato di un momento importante e di grande conforto per i sopravvissuti presenti, tuttavia molte voci esprimono il desiderio, da parte dei Nativi, di vere e proprie scuse da parte della più alta autorità della Chiesa.
Di recente, la Conferenza Episcopale Canadese ha annunciato che il prossimo dicembre alcuni rappresentanti dei maggiori gruppi Indigeni canadesi si recheranno a Roma per incontrare Papa Francesco, che ha invitato le autorità politiche e religiose a continuare
Al di là delle scuse formali (che certo possono essere importanti in un percorso di riconciliazione, pur non essendo risolutive), e della necessità – ove possibile – di dare giustizia a quanti hanno subito veri e propri abusi (nei casi più recenti, l’autore materiale può essere ancora in vita e dovrebbe essere chiamato a rispondere direttamente delle proprie azioni), come cristiani ci interroga certamente la domanda di una vittima:
Nelle scuole c’erano bambini provenienti da famiglie di religione cristiana, ma anche altri che non avevano mai visto una suora o un crocifisso prima di arrivare in collegio. Che “incontro” è stato?
Moltissimi di loro hanno abbandonato ogni pratica religiosa cristiana dopo aver lasciato la scuola, e sono ritornati alla spiritualità indigena. Sarebbe stato così, se avessero ricevuto una testimonianza diversa, se avessero incontrato un atteggiamento più amorevole, più comprensivo nei confronti di bambini che già vivevano il trauma della separazione dalla famiglia, più rispettoso della loro cultura? È troppo tardi per scoprirlo.
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Per altri, è difficile conciliare le proprie radici spirituali con la fede cristiana: si poteva evitare di creare in loro questo conflitto? Forse sì, se non si fosse cercato di imporre come “cristiano” ciò che, invece, era semplicemente “europeo”...
È un problema complesso, quello della cooperazione delle diverse Chiese con quello che è stato definito come un vero e proprio “genocidio culturale”: molti sopravvissuti ricordano di essere stati duramente puniti soltanto per aver parlato la loro lingua, o perché troppo lenti ad eseguire le istruzioni date in una lingua per loro straniera; rimpiangono di aver “perso” la propria lingua, al punto – in alcuni casi – di non essere più in grado di comunicare con i genitori al ritorno a casa.
La cultura e la spiritualità tradizionale indigena erano denigrate e proibite come “pagane”; una ex alunna racconta di aver ricevuto un totem in miniatura per il suo compleanno e che una suora, a cui lo aveva mostrato con orgoglio, lo gettò via; tanti riferiscono che all’ingresso nelle scuole venivano loro tagliati i capelli e che gli abiti e le scarpe tradizionali (cuciti con cura dalle madri) erano buttati nella spazzatura o bruciati, per essere sostituti con vestiti di foggia europea.
Forse non si era neppure consapevoli della violenza che queste azioni rappresentavano per i bambini, proprio perché non vi era conoscenza, comprensione né rispetto per le loro tradizioni.
Diversi ex alunni ricordano di essere stati portati a vergognarsi delle proprie origini: una ex allieva ancora ricorda l’immagine, contenuta in un libro di testo, di due Gesuiti assassinati dai “selvaggi”, rappresentati con uno “sguardo da far raggelare il sangue”; un’altra racconta di aver desiderato ardentemente essere bianca e di essere giunta a disprezzare i genitori per la loro pelle scura e perché non parlavano inglese. Era comune per il personale scolastico assegnare ai bambini nuovi nomi (che suonassero “europei”) o addirittura dei numeri.
Tutto questo contribuiva ad un senso di perdita della propria identità, di bassa autostima e di vergogna per le proprie origini, che ha segnato intere generazioni e che richiederà tempo e attenzione perché si possa guarire.
Certo, si potrebbe dire, “erano altri tempi”
I missionari non erano immuni dai pregiudizi dei loro contemporanei, e molti di loro probabilmente ritenevano in buona fede di fare l’interesse dei bambini Nativi, dando loro un’educazione conforme alle norme sociali “europee”.
Sorgono però interrogativi analoghi a quelli posti dalla vicenda delle Mother and Baby Homes irlandesi: la Commissione in quel caso evidenziava che la responsabilità del trattamento riservato alle madri non sposate era da ascrivere soprattutto alle norme sociali, alla preoccupazione delle famiglie per la propria rispettabilità e reputazione... atteggiamenti che i sacerdoti e le religiose responsabili di questi istituti avevano “assorbito”, più che “influenzato”.
Ognuno di noi, battezzato o no, nasce e cresce in un contesto, ne assorbe idee e preconcetti, e forse non gli può essere rimproverato di non sapersene emancipare; eppure – mentre il mondo critica la Chiesa perché non è abbastanza “al passo con i tempi” – in qualche modo si aspetta, da chi pretende di conoscere la Verità, che “ne sappia di più” e che sia capace, quando occorre, di discostarsi dall’opinione dominante.
In un libro sul tema degli abusi sessuali nella Chiesa, P. Philippe Lefebvre osserva che gli argomenti comunemente utilizzati per giustificare le mancanze dei responsabili nel reagire ai casi di abuso («si è sempre fatto così», «non si conoscevano le conseguenze per le vittime», «si temeva lo scandalo»…) possono forse essere comprensibili, ma costituiscono l’ammissione che si è perduto lo “Spirito di profezia”: quello che dovrebbe renderci immuni (o quasi) allo “Spirito dei tempi”.
Nel famoso caso Buck v. Bell, l’unico giudice della Corte Suprema americana a votare contro la sterilizzazione forzata di una giovane donna ritenuta “debole di mente” fu il Giudice Butler, cattolico: lo fece contro il parere dei maggiori scienziati e giuristi del tempo, che lo incitavano a votare diversamente «nonostante la sua religione».
Il Beato Bartolo Longo, che si ostinava ad accogliere ed educare i figli dei detenuti nonostante la Scuola Positiva allora dominante in criminologia li ritenesse “delinquenti nati” ed irrecuperabili, alle critiche rispondeva:
“Scienza” potrebbe essere sostituito con “cultura”, “politica”, o con qualsiasi altra fonte di autorità e potere.
Dovremmo saper riconoscere quando, nella nostra storia, siamo venuti meno a questo “criterio” che per i seguaci di Cristo dovrebbe essere il primo, e forse (come ha commentato uno dei testimoni alla Truth and Reconciliation Commission) prima di tutto «riconciliarci con lo Spirito» per poterci riconciliare con gli altri.