Molto tempo fa, in un dibattito accademico, sono stato provocato a provare che c'era una verità non relativa, che non dipendeva dalla posizione di ciascuno. Ho chiesto che le persone in sala che non volevano essere felici alzassero la mano. Nessuno lo ha fatto. Ho risposto al mio interlocutore che l'affermazione per cui tutti gli esseri umani vogliono essere felici era una verità assoluta. Una professoressa mi ha contestato, dicendo che dipendeva da ciò che ciascuno intendeva per “essere felici”.
Ho concordato con lei e ho riformulato la frase: “Tutti vogliono essere felici, anche se ciascuno cerca di essere felice a modo suo”. Ho aggiunto che, a partire da lì, si apriva la possibilità di un vero dialogo. Avevamo un punto di arrivo in comune, e potevamo dialogare per paragonare i nostri cammini e imparare insieme cosa sia la vera felicità e come raggiungerla.
Come accade con la speranza, anche la felicità è un desiderio di tutti gli esseri umani e un dono che Dio ci dà, ma che spesso non capiamo né accogliamo, perché lo vediamo con gli occhi del mondo e non con quelli della fede.
Ma questa è la grande disputa di senso nella società contemporanea – anzi, in tutte, anche se la nostra è probabilmente quella in cui la questione è più evidente. In Storia della Morte in Occidente, Philippe Ariès ha scritto che nella società attuale esiste “la necessità della felicità, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva, evitando qualsiasi causa di tristezza o di disagio, mantenendo l'apparenza di essere sempre felici, anche se siamo in fondo alla depressione”.
Papa Francesco ha ben chiara questa caratteristica della nostra epoca. Non a caso, il documento considerato la presentazione della sua proposta per la Chiesa, l'esortazione apostolica Evangelii Gaudium (EG), inizia con queste parole: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. […] Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (EG 1). Questa “gioia del Vangelo” non è altro che la vera felicità cristiana.
Spesso crediamo che la lotta del cristianesimo nel mondo sia un confronto tra valori, che la nostra coerenza morale sia il differenziale tra i buoni cristiani e gli altri. Ci illudiamo che le persone crederanno di più in Cristo perché noi siamo più coerenti. La coerenza è sempre molto importante, ma non è il vero elemento che differenzia tutto. Se il problema fosse la coerenza, al momento decisivo Gesù si sarebbe circondato di bravi farisei e non di pescatori infedeli, come Pietro, o di esattori delle tasse, come Matteo. Le persone seguono Cristo perché si sentono amate e/o perché percepiscono la felicità dei cristiani...
Quando un gruppo di giovani della sua diocesi stava per andare in Brasile come missionari, un vecchio vescovo italiano ha detto loro: “Posso solo augurarvi che quando arriverete alla mia età siate stati felici come me!” Una persona così felice, così sazia di ciò che dà sapore alla vita che non riesce ad augurare nient'altro oltre a ciò che già ha, che non riesce a immaginare che altre persone possano essere più felici, tanto è grande la sua felicità. Non era una frase di prepotenza, non si trattava del “dovere di essere felici” a cui alludeva Ariès, ma del semplice riconoscimento di una grazia ricevuta.
Quando un postulante vuole diventare monaco benedettino, nella cerimonia del suo ingresso in monastero l'abate deve chiedere: “C'è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?”, e il
postulante dovrà rispondere “Io”. Si tratta di un passo della Regola di San Benedetto, in cui si dice che Dio cerca il Suo operaio tra la folla. Commentando questo passo, l'abate Mauro Lepori dice che Dio cerca “il Suo operaio” come qualcuno per il quale ha già stabilito un compito, ma la condizione necessaria per rispondere alla Sua chiamata non sono atteggiamenti, capacità o qualità, ma semplicemente il desiderio di vita e di felicità, il desiderio di pienezza. Sembra tanto semplice! Perché la felicità e la conversione sono così difficili?
Il primo problema che affrontiamo è che per noi la felicità sembra corrispondere alla realizzazione di un nostro progetto. Saremo felici quando faremo questo o quello, quando avremo queste o quelle cose. I più prosaici intendono la felicità come il fatto di possedere dei beni, i più sofisticati come il fatto di godere di molti piaceri, ma è sempre un progetto umano che definisce quali beni o quali piaceri sono necessari e in che modo devono essere conquistati. Qualsiasi persona onesta con se stessa si è già sorpresa a desiderare cose che una volta ottenute non si sono dimostrate all'altezza delle aspettative. Peggio ancora, quando guardiamo attentamente vediamo che quelle cose e quei piaceri non sono neanche quello che desidereremmo, ma ciò che la mentalità egemonica ci impone e a cui aderiamo senza neanche rendercene conto.
Ma non è tutto qui! In fondo, abbiamo paura del fatto che la vera felicità non si possa realizzare. Nel mondo ci sono tanto dolore e tanta sofferenza... Come può esserci un Dio buono se accadono tutte queste cose negative? Alcune persone eccezionali, per capacità o per fortuna, forse ottengono ciò che desiderano, ma noi – che siamo simili agli altri, forse solo un po' migliori, e forse per niente – non possiamo raggiungere tanta felicità. Tra il rischio di non raggiungere la soddisfazione piena e la sicurezza delle piccole soddisfazioni, certe anche se frustranti, preferiamo la sicurezza alla pienezza. Non ci mettiamo tra le mani di Dio, e definiamo la nostra paura prudenza.
È difficile definire cosa sia la felicità. Di fatto, si manifesta in modi diversi per ciascuno di noi. Chi è felice, però, sa cosa sia la felicità, e i cristiani sanno che arriva sempre in modo misterioso e sorprende, sembrando quasi accusarci di non essere degni di tanta Grazia. È la testimonianza più decisiva che possiamo offrire al mondo, quella che può aiutare i più scettici, se sono sinceri con se stessi, a incontrare Cristo.