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La sacra mistica delle “notti magiche”

Jorginho è stato tra i protagonisti della vittoria dell'Italia all'Europeo.

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 12/07/21
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L’Italia è Campione d’Europa: a Wembley ha vinto e convinto, dominando il campo e rimontando da una repentina apertura delle marcature. Perché questo fatto ci coinvolge tanto? Che cosa dice di noi?

Si potrebbe riscrivere così, fra i molti modi possibili, il celebre verso manzoniano che in Marzo 1821 descrive la patria, “una gente”, come «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor». 

È difficile pensare a qualcosa che unisca il popolo italiano più di ciò che ha animato i festeggiamenti di stanotte: votiamo a destra, sinistra, centro o siamo apolitici; ascoltiamo Ligabue o Vasco, Povia o Fedez; ci scanniamo su cose serie e su sciocchezze, però se “l’Italia vince” siamo tutti fratelli e per qualche motivo facciamo in massa cose insensate (bagni nelle fontane, schiamazzi notturni…) e pericolose (colpi d’arma da fuoco, escursioni famigliari in motorino…). Che ci sia qualcosa di vero in quell’ardito distico urlato a squarciagola alla fine del Canto degli Italiani: «Siam pro-ontialla mòrte / l’Italia chiamò!»?

Se però c’è – e innegabilmente esiste – una “magia del calcio”, non è questa: già le antiche anfizionie greche, che vivevano fondamentalmente di culti religiosi e di atletica, erano giunte ad allentare le tensioni politiche e militari, e una delle più celebri (quella di Olimpia) ebbe per lunghissime epoche il potere di sospendere, letteralmente, le guerre, nonché di scandire il tempo pubblico secondo il proprio calendario. Proprio ricordando le Olimpiadi, Pier Bergonzi e papa Francesco discorrevano in un’intervista pubblicata sul primo numero della Gazzetta dello Sport del 2021

Stamane su Radio Maria Padre Livio ha lungamente magnificato la devozione mariana di Roberto Mancini, e pur senza precipitarci verso insostenibili equazioni (come “tutti gli sportivi sono uomini di fede”), resta indiscutibile che ogni attività sportiva, se praticata con serietà e “in modo pulito”, costruisce nell’atleta un habitus virtuoso che lo prepara, o se non altro lo dispone, alla proposta cristiana. 

Non a caso negli ultimi giorni del 2020 papa Francesco rifletteva con Bergonzi: 

Ed è questa la ragione per cui la Chiesa ha sempre guardato con simpatia all’agonismo sportivo: l’analogia tra l’“esercizio spirituale” e l’allenamento fisico è tanto evidente e forte che già i primi autori del Nuovo Testamento ricorrevano a quelle immagini per descrivere l’esperienza che stava prendendo piede nel mondo. 

Anzi, è poi accaduto l’inverso, e cioè che fossero i giochi olimpici a riportare allo sport i motti della morale cristiana – ne ricordava un brillante esempio lo stesso papa Francesco: 

Per questa ragione si può valutare positivamente la posizione della Nazionale Italiana e della FIGC quando l’ostinazione delle solite lobby voleva imporre l’usanza narcisistica e modaiola di genuflettersi “per Black Lives Matter” prima della partita: quando lo sport è ciò che deve essere, esso racchiude già (e potentemente) tutto il possibile carico di fraternità, di uguaglianza, di libertà, e anzi su di esso le moraline imposte dall’esterno rimangono di un non credibile e stucchevole appiccicaticcio. Non a caso ieri sera i profili social dei giocatori inglesi che hanno “sbagliato” i rigori (ovvero che se li sono visti parare da Donnarumma) sono stati affollati da insulti razzisti, e oggi in difesa di Bukayo Saka, Marcus Rashfort e Jadon Sancho è dovuto intervenire pure Boris Johnson. Occhio alle mode e ai barocchismi: un valore è a rischio non quando non si sente il bisogno di ribadirlo continuamente, ma proprio quando se ne fa uno slogan. 

Una riflessione interessante sulla dialettica tra agone e sportività (parole diversissime ma che assurgono quasi a sinonimi) ci è pervenuta da un confronto con Mario Adinolfi: 

Gli italiani possono essere felici, oggi, non solo di aver vinto gli Europei, ma anche di averli vinti bene, con un gioco bello e funzionale, incisivo ma non aggressivo, capace all’occorrenza di dominare e di soffrire, di andare sotto (è successo solo ieri, ma al 2’ è brutta proprio) e di continuare a crederci; senza lasciarsi intimorire dal mugghiare della curva avversaria e sostenuti dagli affetti più cari, pilastri di una vita integra («Guarda qua, mamma!», diceva ieri Florenzi mostrando in camera la medaglia d’oro – e Chiesa: «Mamma, ti amo!»).

Questa è l’Italia? Probabilmente no, non integralmente: è però una proiezione brillante dell’Italia che tutti, in fondo, vorremmo; quella che – messa da parte la paccottiglia ideologica di #BLM e simili – non lascia indietro nessuno (a cominciare dai “vecchietti” Bonucci e Chiellini, che anzi come in una famiglia diventano risacche di sapienza creativa) e perfino mentre scrive la storia propria e altrui lo fa con levità e senza inveire. 

Il siparietto tra Chiellini e Jordi Alba prima dei rigori di Italia-Spagna, le “spizzate” della difesa a Donnarumma ancora durante i supplementari di Italia-Inghilterra – oltre che le mirabili (e decisive) parate del nuovo Gigi nazionale – resteranno tra le immagini emblematiche di questo campionato europeo: un gioco bello perché funzionale ma pure perché gustoso, piacevole da fare e da guardare. Così vorremmo che fosse la nostra vita, e in tal senso si spiega sia il coinvolgimento collettivo sia il giudizio secco contro le mancanze allo spirito sportivo: sarà pure “usanza britannica”, quella di sfilarsi subito dal collo la medaglia d’argento (anche la loro nazionale di Rugby l’aveva fatto, nel 2019, dopo aver perso in Sudafrica), ma se tutti indistintamente la stigmatizzano come “unfair” è perché lo sport comunica da sé “i propri valori” e su quel metro giudica tutti, perfino chi pretende di aver “inventato il calcio”. 

A noi però – a noi che “abbiamo vinto” – non interessa umiliare gli sconfitti: vorremmo semmai che non si perdessero la gioia agrodolce cui pure avrebbero titolo (anche se forse la Danimarca, nella fattispecie, avrebbe meritato quel posto…). Sempre papa Francesco diceva: 

L’umiltà della nazionale di Mancini, che fino a ieri era vantata (e poteva sembrare un mettere le mani avanti in caso di sconfitta) e ancora stanotte veniva rivendicata, non deve sciuparsi nel vano sfogo di chi corre a rifarsi sull’avversario che aveva insultato: «Noi guardiamo il campo e facciamo il nostro gioco – ha detto Chiellini dopo la vittoria –; quello che c’è fuori non ci riguarda». 

Gli faceva eco stamane Alessandro D’Avenia su Instagram: 

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