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La fede del celebre favolista Jean de La Fontaine

JEAN DE LA FONTAINE
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Jean-François Thomas s.J. - pubblicato il 02/07/21
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400 anni fa, precisamente l’8 luglio 1621, nasceva Jean de La Fontaine. Né libertino né cortigiano, il poeta si allontanò da Dio senza rinnegare la tradizione cattolica, prima di tornare penitente alla fede alla sera della vita. Aveva innato un senso che lo portava a riconoscere il divino negli esseri viventi, in particolare negli animali. Morì come un santo.

È un peccato che si sia ridotto Jean de La Fontaine a un istrione che scopiazzava le favole di Esopo e a un vessillifero di valori civili spruzzati di moralismo. Fra tutte le poesie che da bambini si imparano a scuola, peraltro, le sue Favole sono quelle che restano più profondamente impresse nella memoria: specialmente in Francia è raro incontrare qualcuno incapace di recitare almeno qualche verso del magnifico autore. 

E tuttavia, a parte qualche rara immagine di Épinal, autore della biografia dello scrittore – ad esempio il quadretto di La Fontaine che osservava gli animali nella foresta per trascrivere i loro comportamenti – la sua personalità resta assai poco nota. Alcuni hanno voluto farne un’icona dello scetticismo religioso, se non dell’ateismo, e questo al fine di servire interessi politici ostili alla Chiesa, ma un siffatto ritratto non regge assolutamente il confronto con la realtà. Qual era dunque la fede di Jean de La Fontaine? 

Va da sé che nacque in una famiglia cristiana, in quel XVII secolo francese che avrebbe conosciuto un’età dell’oro in fatto di spiritualità, soprattutto sotto il regno di Luigi XIII, re piissimo spiritualmente diretto da san Vincenzo de’ Paoli. Il giovane Jean si sarebbe impegnato molto seriamente, e certo non per convenienza, nel noviziato dell’Oratoire de France. Il fatto che non vi soggiornasse non si deve a un’improvvisa ribellione – come pure fu il caso per altre figure coeve che si sarebbero ritrovate nella militanza anti-religiosa, discreta ed elitista, nota sotto il nome dei “Déniasés” [“i Denigrati”, N.d.T.]. 

È vero che per lunghissimi anni avrebbe abbandonato la regolare pratica religiosa, ma non per questo avrebbe aderito alle opinioni e alle idee dei suoi numerosi amici e protettori, tutti a margine del potere e del suo esercizio diretto. Mai si lasciò intruppare da chicchessia – giansenisti, gallicani, quietisti, libertini, devoti… – pur frequentando molti saloni che se lo contendevano. 

Emarginato in partenza a Corte – poiché da principio era stato un intimo di Fouquet, che poi cadde in disgrazia –, fu sempre ignorato da Luigi XIV, che mai l’avrebbe incontrato né l’avrebbe invitato a Versailles: La Fontaine avrebbe sempre provato una profonda diffidenza verso coloro che, servilmente, orbitavano nella loro parte nel Grand Siècle del Re Sole. Del resto le sue favole sono politiche, si presero gioco dell’assolutismo e dei Moderni – essendo egli cresciuto nel partito degli Antichi – in quell’epoca in cui le Api legate alla tradizione, delle quali egli fu partigiano, battagliavano contro i Ragni che disdegnavano il secolo di San Luigi, il Rinascimento e i grandi poeti dell’Antichità. 

Fu amato e protetto da alcuni grandi del regno che rigettavano le ambizioni di Luigi XIV: la sua grande madrina fu Madame de La Sablière, ma avrebbe accettato con naturale confidenza ogni mano a lui tesa, senza giudicare le convinzioni e le persone in causa. I suoi gusti letterari furono universali ed eterogenei: Platone, Virgilio, Ovidio, Orazio, Ariosto, Esopo, ma anche i Salmi e molti scritti spirituali, tra cui quelli del suo amico Fénelon. Sapeva riconoscere quel che era sincero e ardente anche tra coloro che gli erano estranei, come i calvinisti; era vicino ai giansenisti e ai Signori di Port-Royal, ma non disprezzava neppure i loro avversari, i gesuiti, tra cui i padri Bouhours e Rapin. 

Quest’uomo fu un conciliatore, un federatore: basta compulsare la sua poco nota opera “Raccolta di poesie cristiane e diverse”, del 1671, in cui affastella alcune favole che ben si sposano con certe poesie religiose, tra cui una mirabile parafrasi del Salmo XVII. Cercava di conciliare lirismo profano e religioso, nella scia delle Odi sacre di Racan e mentre Corneille traduceva l’Imitazione di Gesù Cristo. Nel 1684 avrebbe detto, nel suo Discorso di ringraziamento all’Académie française:

Se fu marginale, ciò non si dovette alla sua supposta miscredenza, ma piuttosto alla sua posizione subalterna fra i letterati del regno. 

Marc Fumaroli, nel suo straordinario Le Poète et le Roi, Jean de La Fontaine en son siècle (De Fallois, 1997), sottolinea che il poeta 

Esiste in La Fontaine la nostalgia di un lirismo cattolico e reale, e non desta certo meraviglia che egli sia stato condotto passo passo verso la “conversione”, verso il ritorno al cuore di una fede viva, come Racine o come il calvinista Pellisson. Quando nel 1674 pubblicò La Captivitité de saint Malc, non gli riuscì di conquistarsi i favori del sovrano: avrebbe allora rinunciato a provare che la corrispondenza tra poema lirico e religione reale fosse possibile, e si sarebbe contentato di coltivare il proprio giardino riconoscendosi peccatore, ma fiducioso nel giudizio divino. 

La sua amica Madame de La Sablière avrebbe ritrovato la via della fede nel 1680, e da allora non avrebbe cessato di insistere con La Fontaine perché facesse lo stesso. S’instaurò allora una “sacra conversazione” tra il poeta e la gran dama diretta dal gesuita Rapin, poi dall’austero padre de Rancé, fondatore della Trappa. Il giorno della sua morte, il 6 gennaio 1693, trovò ancora la forza di scrivere all’amico: 

La Fontaine era malato, ma sarebbe sopravvissuto e avrebbe proseguito il proprio cammino spirituale: fece una confessione generale, si diede alla penitenza e rinnegò pubblicamente i Racconti, a casa sua, davanti a un consesso di accademici. Faceva fatica a considerare pericoloso quel libro, ma obbedì all’ingiunzione del reverendo con profonda umiltà, come Fénelon avrebbe chinato il capo davanti alla condanna delle sue Massime dei Santi (ma è tutt’altro registro). Fumaroli insiste sul fatto che «niente di umano gli era estraneo», e che possedeva un interiore senso del divino che gli permetteva di permanere indenne dai teoreti epicurei che talvolta frequentava. Difatti non fu per convinzione dottrinale, dogmatica o morale, che egli tornò, fervente, alla fede cattolica, bensì per l’innato senso a riconoscere il divino negli esseri – compresi, naturalmente, gli animali. 

Dalle sue ultime lettere a Maucroix sappiamo che La Fontaine s’impose incredibili penitenze e mortificazioni, ispirandosi in questo a San Luigi. Alla sua morte gli trovarono addosso un cilicio. L’amico Boileau avrebbe scritto: 

Quest’Ape, La Fontaine, innamorato del Rinascimento, del quale fu in qualche modo l’ultimo poeta, divenne – un poco suo malgrado – il primo poeta moderno. Si unì al re che l’aveva ignorato in quanto entrambi rimisero l’anima alle cure della Chiesa (gallicana perché in Francia). La Fontaine si spogliò, alla sera della sua vita, di ogni artificio, benché non ne avesse mai fatto vero uso. 

Quattro secoli dopo la sua nascita, è ora di rileggerlo con delle lenti cattoliche, e di scoprire nelle sue Favole delle morali convergenti con le virtù cristiane. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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