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Ragazzi, in vacanza arrivate ai ferri corti col vostro desiderio

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Paola Belletti - pubblicato il 07/06/21
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La vacanza non è tempo vuoto, se è pieno di senso ciò che facciamo e se è orientato al nostro desiderio più autentico, quello che ha a che fare con i nostri talenti e attitudini e soprattutto con la nostra fame di felicità e pienezza.

Quanta vita in un elenco di Io vorrei. Sono veri desiderata, quelli che D'Avenia ha raccolto dai suoi studenti. Desiderio è la chiave-parola che disserra intenzioni, raddrizza spalle, dà impulso ai muscoli di questi ragazzi, i suoi studenti.

Il tema della vocazione, negli interventi scritti, dal vivo, nei libri e nella vita professionale del Prof 2.0 è spesso cruciale.

E Dio lo benedice per questo, non ho dubbi.

Come vorrei, da mamma, vedere le mie figlie guardate così, scrutate così, accompagnate così, soprattutto quelle che hanno nello zaino qualche peso e fatica in più. Spesso invece sono appena sfiorate, considerate per quel che secondo altri possono dare, accompagnate solo nel ristretto perimetro dell'ordine scolastico che tocca sotto la loro competenza e mai invitate ad alzare gli occhi al cielo per esercitare il loro compito primario: desiderare. Io mi scoraggio, ogni tanto, lo confesso senza quel pudore che invece dovrei chiamare all'appello.

Perché nessuno è perduto, fino alla fine, fino all'ultimo momento. Nemmeno se passasse tra ranghi serrati di occhi indifferenti e apatici poiché ne basta uno, di sguardo, insistentemente puntato su di noi e capace di vederci come nemmeno noi stessi sospettiamo di essere.

Questa consapevolezza mi consola, ma vorrei tornare con voi alla riflessione di Alessandro D'Avenia perché come spesso accade ci accompagna proprio in groppa alle parole dall'ideale alla sua declinazione quotidiana concreta. Non si desidera e basta, ma occorre considerare.

Gli studenti che verso fine anno rispondono ad uno dei molti questionari che sottopone loro sono accompagnati con un corrimano di domande ad incontrare se stessi, a scoprire in sè attitudini, talenti, limiti da custodire e dai quali farsi custodire - e non sempre da superare spavaldamente. E di tutto questo magma incandescente sono aiutati a fare progetti, agende, sveglie programmate, post-it sul frigo, se necessario. Ogni viaggio, persino il giro del mondo, è fatto di grandi rotte che poi diventano itinerari quotidiani e alla fine si riducono a singoli passi. Così è dei nostri desideri.

Che si fa quando si guardano cadere le stelle la notte del 10 di agosto? Un gioco tanto serio quanto la vita e il suo mandato: compiersi, essere felici.

Questo arco teso tra il nostro petto e la volta celeste è il motore mobilissimo, inquieto e bruciante di tutta la vita che vediamo e che ci spetta. Tradirsi in questo è come pianificare la dismissione della centrale nucleare che alimenta l'intera nostra esistenza. Non è per questo che certi adulti sembrano gravati da un sarcofago di cemento armato come il sito di Cernobyl?

Benissimo, allora in marcia, partiamo? No, la prima cosa da fare davanti a questo fuoco è raccogliersi e contemplare.

Il desiderio non è prodotto dalla tecnica, non è frutto di metodo. Ma li esige. Hai un desiderio? Scoprilo e poi lavoraci e con esso lavora te stesso.

Se pensiamo alle proposte pseudoideali in circolazione in questi decenni esagitati sembrerebbe che il desiderio, la ricerca del proprio talento particolare, l'imperativo semi-categorico ad emergere, siano nella prima tavola della legge dell'uomo contemporaneo, subito dopo l'ammonimento "il tuo io sia il tuo dio".

Invece non è vero; non ci insegna a desiderare davvero, perché non tratta il desiderio come qualcosa di intimo ma di dato e non ci invita a liberarlo da detriti e a metterlo in gioco nella realtà. Manca tutta la parte del lavoro su di sé, della scoperta in sè stessi di ciò che è autentico e di ciò che non lo è, di ciò che va nutrito o va lasciato morire di fame. E così alleviamo in noi lupo e agnello e se le cose non vanno come vogliamo è colpa del mondo e della cultura che ci opprimono.

Il mondo vuole che ci affrettiamo ad esprimerci; chi ha davvero a cuore il nostro desiderio più vero, invece, ci invita a scoprire che cosa è stato impresso in noi, da Altri.

E cosa c'entra tutto questo con le vacanze estive arrivate dopo un anno scolastico percepito come un paio e dei peggiori?

C'entra perché la vacanza, a dispetto del suo stesso nome, è il luogo del pieno, dell'intero, dell'io che si gioca fino in fondo.

C'entra perché se voglio che gli astri orientino il mio viaggio devo saper tradurre quella meta in singoli passi giornalieri.

Chi come me e metà del genere umano deve occuparsi di riorganizzare la disposizione dei vestiti negli armadi di tutta la famiglia o quasi lo sa che si tratta di una faccenda epocale; il cambio di stagione, per chi vi fosse ancora costretto, mette alla prova intelligenza, forza creatività e resistenza agli allergeni annidati nella polvere che ha svernato tra le t-shirt e le canottiere a righe dell'estate scorsa.

Ma le vacanze, per i nostri figli, soprattutto quelli che veleggiano scomposti e ardenti verso le coste accidentate della giovinezza, sono davvero un mutamento di stagione. Inizia quella della vita spesa in prima persona. La stagione delle libertà, del rischio, delle decisioni che lasciano un segno, a volte anche segnacci.

L'estate è allora la stagione più impegnativa che ci sia perché non ci si riposa mai da sé stessi e da ciò che davvero ci mette con le spalle al muro: chi sono, cosa voglio, cosa desidero costruire? Io mi ricordo quando queste domande mi tenevano sempre sotto assedio e ne ho quasi nostalgia.

Dal suo Ultimo banco, D'Avenia, raccontandoci dei suoi studenti, insegna anche agli altri e ai loro smarriti genitori, che il fiume in piena del desiderio si può instradare dentro argini possenti, che quel fuoco che accende la vita ma non sappiamo governare si può far attecchire anche a grossi ceppi, del tipo che durano a lungo e scaldano case intere e diffondono luce. Ci insegna, imparandolo lui mentre lo mostra ai suoi studenti, che il desiderio è una faccenda seria ed esige un lavoro.

Che noi, come persone, siamo faccenda serissima e di primaria importanza addirittura per chi ha fatto l'universo e lo regge (questo pensiero mi fa quasi impazzire, quando mi ci soffermo: io, proprio io, tutta lamentele, ingratitudine e senso di abbandono, sono talmente importante per il Re dei Cieli che ha deciso prima ancora che nascessi che mi sarei meritata l'offerta della vita di Suo figlio. Ditemi voi se non è cosa da far perdere il senno o, finalmente, trovarlo compiuto).

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