«Un buon padre non è “un esperto”», ama ripetere Fabrice Hadjadj, padre di nove figli e direttore dell'Istituto Philantropos (Friburgo svizzera). Nella sua nuova opera, il filosofo spiega perché san Giuseppe è, secondo lui, il padre per eccellenza: «precisamente – cioè – perché è abbandonato all'incomprensibile».
Trascriviamo per voi una traduzione della breve intervista rilasciata ad Aleteia:
La sua capacità di sopportare/supportare una donna e un bambino che assolutamente non comprende.
Giuseppe è rimasto innamorato di Maria per tutta la vita anzitutto perché è un uomo virile. Un uomo virile è un uomo che sa amare. La virilità… spesso si crede che sia pomparsi un po'… ma questa è roba da effeminati. Sono i tipi che dubitano della loro virilità ad aver bisogno di mostrare pettorali e addominali: un uomo virile è un uomo che sa far posto alla donna, che sa far posto al mistero del femminino; che ad esempio sa impedirsi di saltarle addosso.
Dunque, allora, questa distanza nella virilità mantiene sempre lo spazio per vedere il mistero della donna: un mistero che non si capirà mai del tutto, di cui non si verrà mai a capo.
Giuseppe è l'uomo del desiderio, non del godimento. Noi tendiamo… noi uomini… a prendere le donne e a farne oggetto di godimento: Giuseppe viene a insegnarci a stare nel desiderio, cosa che fa sì che, posta la distanza, il minimo fruscio di gonna, il più piccolo gesto, il più impercettibile occhiolino sia sconvolgente… sia un evento che non meritiamo. Ed è questo che Giuseppe vivrà con la Vergine Maria, e per questo il suo amore viene incessantemente rinnovato: perché ha quella virilità che sa mantenere la polarità del desiderio.
Dire di sé “sono un buon padre” è un vero problema. Immaginate che un uomo si dica: «Se devo fare figli devo essere un buon padre», e che quindi si sieda e si dica: «Allora, ci siamo! Ho capito tutto della vita, ho tutte le competenze educative in grado sufficiente… ce la farò! Sarò all'altezza e non ci saranno problemi». Quell'uomo non è un padre, è una specie di ingegnere che vuole fabbricare un prodotto senza difetti: bisogna però distinguere tra un padre e un fabbricante di prodotti, non è lo stesso.
Un padre, quaggiù, non è mai “il padre”, perché anzitutto è un figlio; e non è mai “buono”, perché è un peccatore ed è manchevole. E se uno si dicesse “Devo aspettare di essere buono” o “di avere abbastanza competenze” per avere dei figli, è chiaro che non avrà mai figli. Al limite si farà un cane e sarà un buon padrone di cani, per quanto anche lì…
La questione vera è questa: che cos'è la buona paternità umana, in fondo? È proprio una paternità che passa attraverso errori: è il padre che all'improvviso si trova in posizione di autorità, ma di quella che io chiamo “autorità senza competenza”, cioè un “ecco, questa cosa mi è capitata tra capo e collo, ora sono padre di questo bambino eppure non ho preso una “patente di competenza parentale”, ho solo amato mia moglie.
È quel che succede nel ritrovamento di Gesù al Tempio: che cos'è un buon padre? È uno che si dimentica il figlio nella carovana, e un figlio ancora in pericolo (Archelao non era ancora morto): magari se l'erano bevuto… in fondo erano a Gerusalemme, la città da cui erano fuggiti anni prima… «Tuo padre e io ti abbiamo cercato angosciati!»… e Gesù cosa dice? «Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi degli affari di mio padre?». Qui il padre scopre di essere padre, proprio in quelle sue mancanze, per rivolgere il figlio verso il Padre eterno.
Non lo so perché oggi si parli di “genitore 1” e “genitore 2”… soltanto! Voglio dire, se si comincia a fare “genitore N”, con una cifra… l'enumerazione potrebbe essere indefinita.
Dietro questa logica, di questa specie di genitorialità con dei numeri, c'è qualcosa di aberrante: o si entra nella possibilità di una “genitorialità N” – ma allora si riconosce che non si sta parlando più della famiglia, ma di un'impresa in cui ci sono diversi specialisti che si occupano della fabbricazione del miglior figlio possibile (e perché no? Una bella impresa bio-tecnologica!) – oppure perché dire “1 e 2”? Perché due?
Perché di fatto il modello insuperabile – anzi, la realtà, che non è un modello – e naturale, che non è una costruzione ideologica, è l'uomo e la donna che si amano e il figlio che av-viene non come un progetto, non come un programma ma come l'avventura stessa del loro amore.
Penso che il regalo più bello che si possa fare per la festa del papà, malgrado tutto, sia non semplicemente fare un regalo, ma passare del tempo col proprio padre. Rendersi disponibile a un tempo del genere, talvolta anche obbligarsi ad esso – magari uno non ne avrebbe voglia – e allora sì che lo si festeggia davvero come padre.
Fabrice Hadjadj, Être père avec saint Joseph : petit guide de l’aventurier des temps postmodernes, Magnificat, maggio 2021.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]