Con Bianca come il latte, rossa come il sangue, bestseller in Italia e non solo, Alessandro D’Avenia ha raccontato il mondo della scuola in modo avvincente. Un racconto, come è avvenuto nei romanzi successivi fino all’ultimo, L’appello, — anch’esso tra i più venduti dell’ultimo anno — che è frutto di un’esperienza concreta, fatta di fatiche e successi quotidiani vissuti in un’aula scolastica. Professore di lettere al Collegio San Carlo di Milano, D’Avenia si è confrontato con «L’Osservatore Romano» sul difficile anno scolastico che si va concludendo. Anno segnato dalla pandemia che, secondo lo scrittore e sceneggiatore palermitano, ha messo in luce limiti e risorse del modello scolastico attuale e che richiede un sussulto di creatività per ri-mettere la persona e la relazione al centro dell’educazione.
Professore, si sta concludendo il primo anno scolastico interamente vissuto nel drammatico contesto della pandemia. C’è una lezione che possiamo trarre da questo tsunami che ha travolto anche la scuola?
Che come sempre, dopo che il Verbo si è fatto carne, è la carne a doversi fare verbo. Il principio guida della realtà è la relazione, perché veniamo da una relazione (la Trinità e i nostri genitori). Dove c’è la relazione si affronta qualsiasi fatica. La scuola è aperta (non parlo delle mura) solo dove la relazione maestro-discepolo è aperta. La Didattica a distanza ( DAD ) è stata il necrologio di un paziente moribondo dove la relazione non c’era già prima, dove invece la relazione era viva è stata un’occasione creativa per trovare le soluzioni per tenere viva la relazione. Io non ho mai fatto tanti colloqui a tu per tu con gli studenti come in questo periodo. Ho rinnovato il mio modo di insegnare certe cose. E ho scoperto che l’uomo, ridotto all’essenziale, è volto e voce. Il punto non è la DAD ma se il rapporto maestro discepolo era o non era generativo. Le relazioni o sono generative (fanno crescere) o degenerative (fanno de-crescere).
I giovani sono naturalmente portati all’incontro, all’abbraccio, al contatto fisico. All’improvviso, e senza preavviso, si sono ritrovati in una condizione di “immobilità”, di paralisi delle relazioni. Che impatto ha avuto questo sui suoi studenti?
Viviamo in tempi di forte “disincarnazione”: ci ingozziamo di emozioni e fantasmi di realtà senza farne veramente esperienza. È la potenza del visivo in cui siamo immersi. Il fenomeno hikikimori dovrebbe farci riflettere: c’è chi ha già deciso che si può vivere dentro una matrix (parola che viene da madre) emotiva e fantasmatica. Quindi recupereremo nella misura in cui daremo a questi ragazzi quello di cui hanno sempre avuto bisogno: un aiuto per farli crescere, e siccome sono denutriti gliene dovremo dare di più e in modo intelligente. Qui entra in gioco la creatività degli adulti, che però mi sembra paralizzata dall’ansia e dalla paura. Noi cresciamo nella misura in cui viene nutrito il nostro spirito e la maturazione può avere balzi in avanti inattesi: basta un amore, un lutto, un libro, un amico, una frase... per attivare parti di noi ancora dormienti o ferite. Si tratta quindi di fornire più occasioni possibili per questo risveglio, soprattutto ora che i ragazzi sembrano narcotizzati. Quali saranno i “sali” per farli risvegliare starà a noi scoprirlo. E in questo periodo la soluzione che io ho trovato sono i colloqui personali pomeridiani e un appello ben curato tutte le mattine, facendo una domanda a ciascuno per renderlo presente a se stesso e agli altri.
Cosa servirebbe per imprimere un nuovo inizio dopo questo periodo così difficile, cosa sogna per la scuola del futuro?
Tutto quello che sogno per la scuola del futuro l’ho scritto nel mio ultimo romanzo: L’appello, un vero e proprio manifesto culturale e politico. Dobbiamo ripartire da una riforma a costo zero: fare bene l’appello. Ogni studente preso in carico nella sua unicità ogni giorno. Nella scuola di oggi ognuno vale in base alle possibilità economiche. La scuola finisce così con il confermare le differenze socio economiche di partenza invece di ridimensionarle e dare vere possibilità a tutti di dare il meglio che può. È però vero che i cambiamenti avvengono sempre quando un sistema muore, e questo sta accadendo: la pandemia ha messo a nudo una crisi in atto da decenni. Non è normale una scuola basata sul precariato, la burocrazia, un sistema che mortifica la professione (il più alto tasso di burn out professionale è quello dei docenti). Se i maestri sono mortificati, i discepoli e le loro famiglie diventano nemici. E infatti si mettono contro la scuola o le si sottraggono: abbiamo cifre di dispersione scolastica spaventose. Eppure in questo contesto ci sono situazioni virtuose anche in contesti difficilissimi: perché non diventano un modello? Qui entra in gioco la politica, che sulla scuola si muove in modo cieco. La scuola del futuro deve essere una scuola-bottega in cui il maestro insegna ai discepoli i fondamenti della sua arte, ma poi ciascuno, seguito personalmente, se ne appropria con uno stile irripetibile.
Recentemente, nella sua rubrica settimanale sul «Corriere della Sera», ha voluto condividere l’esperienza dei colloqui con i genitori al tempo del distanziamento sociale. Perché questa dimensione considerata “normale” nella vita scolastica l’ha colpita così tanto quest’anno?
Perché non è per niente normale. I colloqui si risolvono spesso in uno stanco rito di fine anno, in cui i genitori (solo le madri di fatto) si fanno vivi per rassicurarsi che vada tutto bene o per bon-ton. Il colloquio è un momento educativo fondamentale, bisognerebbe farli a inizio anno, senza voti, perché il ragazzo non è un elenco di prestazioni, ma un uomo o una donna in crescita, e chi lo segue deve sapere come fare ad aiutarlo a crescere, sia nel senso della natura umana comune a tutti, sia nel senso del modo in cui si realizza in quello specifico irripetibile essere umano. Per fare questo ci vuole un atto d’amore: così come il ragazzo è stato messo al mondo facendo l’amore, bisogna rimetterlo al mondo “ri-facendo” l’amore, che significa dedicare tempo e pensiero. Quindi ai colloqui chiedo ci siano presenti il padre e la madre, anche e soprattutto quando ci sono situazioni più fragili (separazioni). In DAD sono riuscito a ottenere quasi il 100% di presenze di entrambi, grazie alla facilità del mezzo e questo ha dato in tanti dei frutti sperati. Come sempre quando funziona la relazione tutto il resto viene di conseguenza, perché i ragazzi somigliano alla relazione dei genitori più che a uno dei due.
Parlando agli Stati generali della Natalità, il 14 maggio, Papa Francesco ha affermato che «a scuola non si matura solo attraverso i voti, ma attraverso i volti che si incontrano». Cosa le ispirano queste parole del Papa sull’educazione?
La logica del cristianesimo è il Logos: Dio fatto uomo, cioè volto e voce del Padre. Questo paradigma deve guidare ogni nostra azione e sguardo sul mondo. Nel volto umano c’è l’altro e l’Altro, c’è l’oltre e l’Oltre. Ed è questo che rende la realtà appassionante, nei termini di una passione che sia eros (amore) sia responsabilità (farsi carico dell’altro). Tutta la realtà è fatta per farci amare e per essere amati sempre di più, se ce ne rendiamo conto avremo una vita felice.
Fra pochi giorni i ragazzi potranno godersi le vacanze dopo un anno difficile. Che augurio si sente di rivolgergli?
Quello che dice un per-sonaggio di Shakespeare: «Quando l’anima è pronta lo sono anche le cose» e non viceversa come si pensa oggi. Quindi auguro loro di coltivare la vita interiore, cioè quella casa a cui si può sempre tornare quando ci si perde, e da cui si può sempre partire quando è necessario affrontare nuove sfide con coraggio.