Leggendo il titolo della riflessione odierna di Alessandro D'Avenia sul Corriere della Sera avevo pensato a un affondo sulla recente tragedia della funivia del Mottarone. Sul titolo, infatti, campeggia una parola grossa: ira. Avevo immaginato un pensiero che toccasse le corde del nostro disorientamento nell'apprendere che dietro la morte di 14 persone non c'è stato un incidente ma una scelta consapevole. Invece il discorso di D'Avenia non tocca minimamente l'argomento, è tutto orientato al rock dei Maneskin, trionfatori dell'Eurovision.
La mia immaginazione aveva preso il sentiero sbagliato, ma non si era ingannata del tutto. Cos'è l'ira? Perché è un'emozione che appartiene profondamente a questo nostro tempo? Nello spalancare questo argomento, che ci si entri parlando di rock o di cronaca, ci si confronta con una specie di tempesta interiore molto precisa: quella di chi urla perché si sente dimenticato, non visto, fuori da uno sguardo di preferenza.
Rock, voce del verbo scuotere. Per tradizione questo genere musicale canta la rottura, l'urlo di chi non appartiene al coro e vuol far tremare l'inerte status quo dei più. Non ho le competenze giuste per dire se i Maneskin meritino di essere annoverati nella stessa categoria che accoglie i Pink Floyd e i Van Halen. Di sicuro il codice in cui si esprimono è quello tonante e provocatorio del rock, anche se i test antidroga fatti all'indomani della vittoria all'Eurovision ci hanno rassicurato sul fatto che sono 'dei bravi ragazzi'.
Reduci anche dalla vittoria sanremese, il loro brano ci accompagna su ogni frequenza radiofonica: siamo fuori di testa, ma diversi da loro. Non sono i primi, né saranno gli ultimi a cantare la rabbia di non sentirsi parte del gregge umano, di fuggire l'omologazione, eccetera. Ma D'Avenia mi ha aiutato a correggere il tiro: l'ira, e non la rabbia, è il soggetto del discorso.
Il titolo dell'album dei Maneskin è, in effetti, Teatro dell'ira e per un amante dei classici come D'Avenia sarà stato spontaneo pensare all'incipit dell'Iliade. Da insegnante avrà colto al volo l'occasione di portare il discorso da una canzone del 2021 al canto che accompagna l'umanità da secoli.
E ha fatto bene, perché il punto non è mettere Omero sullo stesso piano di una band emergente, ma riconoscere che - nonostante passino secoli e millenni - l'uomo non cambia. Cantami, o Diva, del pelide Achille l'ira funesta - lo ricordiamo tutti.
Siamo soliti dire che il tema dell'Iliade è la guerra di Troia, ma il poeta è chiaro fin dall'inizio a dirci che il vero soggetto è l'ira di un guerriero quasi invincibile. Ed è ira, non rabbia. Cosa divampa nel cuore di Achille e cosa può aver a che fare con i vestiti borchiati e gli occhi truccati di 4 ragazzi sul palco dell'Eurovision 2021?
Qual è il punto di vulnerabilità dell'Achille contemporaneo?
Sono un po' strana, ma lo faccio: in auto ascolto qualunque canzone passi e la uso per fare un esame di coscienza. Forse sono più simile a un cane da tartufo, annuso cosa c'è dietro le parole. E non di rado capita di annusare il profumo di casa, come se fosse impossibile nascondere a chi apparteniamo. Come se, ignari di avere un Padre, non riuscissimo comunque a evitare di assomigliargli.
Faccio subito un esempio pertinente al tema, che a breve ci riporterà all'ira. Di Fedez si può dire con ragionevole certezza che non abbia un'approfondita formazione evangelica. Però è andato a Sanremo a cantare con Francesca Michielin un brano che nel ritornello dice:
Chiamami per nome Perché in fondo qui sull'erba siamo mille, mille Sento tutto sulla pelle, pelle Ma vedo solo te baby
Tutte le volte che la sento, penso a Zaccheo. Erano in tanti quel giorno che salì sul sicomoro. E Gesù vide solo lui e lo chiamò per nome. Ecco. Un ateo dichiarato come Fedez per parlare al pubblico e raccontare un amore che è preferenza usa un'immagine evangelica. Se qualcuno glielo facesse presente, rifiuterebbe quasi certamente il legame. Siamo parenti di Dio a nostra insaputa.
E anche i Maneskin, pur cantando "in casa mia non c'è Dio", ne sono parenti a loro insaputa se la loro ira nasce dal tormento di non essere chiamati per nome. Quest'ultima - meravigliosa! - intuizione è di D'Avenia che si richiama al testo di un'altra loro canzone:
Il legame con Achille si salda proprio su questo punto. Ed è un segnale chiaro: è come se il nostro tempo avesse fatto un enorme balzo indietro, ritornando al tempo dei pagani e saltando a pié pari la presenza gigante dell'Incarnazione e Redenzione.
Intendiamoci, non sarebbe male se fossimo tornati al tempo della classicità pagana. Se anche solo gli fossimo vagamente simili sarebbe già tanto. E vale la pena fare questi salti enormi dall'epica all'Eurovision, perché i nostri figli e studenti sentono il trambusto di sentirsi fuori di testa e diversi da loro, ma non è detto che sappiano dare un nome chiaro alla turbolenza di viscere, anima e testa. 'Scontento' è parola troppo fiacca. 'Rabbia' è qualcosa di impetuoso e passeggero. Ira sia, se l'accompagnamo alla consapevolezza del sentirsi 'non chiamati per nome'. E così siamo proprio sullo stesso campo di battaglia di Achille, Ettore, Enea.
La letteratura greca documenta una grande attesa nel cuore dell'uomo, uno sguardo proiettato a cercare, in alto e anche a fondo, una parola di bene che neppure le più grandi intuizioni di un Platone o Aristotele furono in grado di pronunciare. In compagnia di quei grandi Greci possiamo essere quelli che - inconsapevolmente - non aspettano altro che il discorso di San Paolo all'Aeropago:
Quello che voi adorate senza conoscere io ve lo annuncio. (At 17, 23)
L'unica forza in grado di disinnescare l'ira è la compassione. Achille ne sente un assaggio quando vede un padre-re che si umilia per rivendicare il corpo del figlio morto. Questa è una risposta incarnata al cruccio del non sentirsi chiamati per nome. Di fronte a una scena simile l'anima di un pagano può, allora, spingersi a dire: quanto sarebbe bello se ci fosse un Padre che viene a reclamare il corpo di ciascuno per sottrarlo all'oblio della polvere!
In fondo, ogni mattina, facendo l'appello, l'insegnante è come il Priamo che rivendica il corpo di suo figlio, lo chiama fuori dall'oblio. Dovremmo cominciare a offrire occasioni ai nostri figli e studenti per sentirsi chiamati ad alzarsi in piedi, che è l'alternativa all'essere fuori di testa. Ciascuno di noi è fuori (dalla massa, dall'omologazione) perché è come l'alunno che si alza dal banco durante l'appello. Guardato personalmente, separato dalla pura visione d'insieme. E mi rendo conto ora che L'appello è il titolo dell'ultimo libro di D'Avenia.
Perché noi apparteniamo a un'epica nuova. Fatta di appelli. Siamo dentro la stessa storia di si chiamava Simone e fu chiamato Pietro. Quella di chi era Saulo, e poi fu chiamato Paolo. E non dimentichiamoci che anche il poema italiano per eccellenza, la Divina Commedia, ha qualcosa da dirci in merito. Una sola volta compare il nome di Dante in quei famosi 100 canti. Ed è quando Beatrice lo chiama per nome per cominciare a salire in Paradiso (Purg. XXX, 55).