Non so quanti di coloro che stanno leggendo la presente riflessione, forse incuriositi da un titolo che in qualche modo non si sa quale tipo di domanda e risposta presenti e comporti, hanno visto il film sulla vita di san Filippo Neri (1515-1595), interpretato dal grande ed unico Gigi Proietti: “Preferisco il Paradiso” (2010).
Personalmente l’ho visto in varie lingue almeno una trentina di volte, ed ogni volta, non mi vergogno a dirlo, mi ha profondamente toccato e commosso, al punto che ne consiglio la visione a tutti e, soprattutto, a chi ha ricevuto il dono della vocazione da parte di Dio alla vita consacrata o al ministero sacro. Forse esagerando, sono convinto che contenga spunti di riflessione e meditazione sufficienti per un intero corso di Esercizi Spirituali. La figura di questo santo è sempre stata in qualche modo presente nella mia vita e nella mia vocazione domenicana: da giovane frequentò il Convento di San Marco in Firenze, che solo alcuni decenni prima aveva visto la presenza e l’opera di fr. Girolamo Savonarola (1452-1498), Convento nel quale feci il mio Noviziato e durante il quale lessi alcune vite del Neri, che ho sempre sentito vicino, almeno per il comune senso dell’umorismo! Bellissima e commovente è una preghiera messa nel film sulla bocca di Filippo, che riassume le sue speranze, i suoi desideri, le sue fatiche, il suo combattimento: “O Signore come faccio a far capire loro che tu sei l’unica fonte della gioia e della bellezza, io senza di te non sono niente, perché hai scelto me per fare tutte queste cose? Io non sono degno! Anche se amo la gente, la gioia più grande è stare con te, ma alla fine ho tempo per tutti meno che per te!”.
In ogni caso, mi permetto di proporre qui solo alcune scene, la prima è quella che apre la seconda parte del film. I bambini che erano stati presi dalla strada da P. Filippo e riuniti nell’Oratorio per essere nutriti materialmente e spiritualmente, diventati adulti si ritrovano per festeggiare il compleanno del loro “padre” che, scherzosamente, ricorda di averne solo uno in più dell’anno prima: e basta! Intorno alla tavola ognuno condivide con i presenti i ricordi ed anche i progetti per il futuro. Alessandro, convertitosi, partirà per le Indie con i Gesuiti (sogno che rimase tale per Filippo), Camillo prenderà il suo posto per la cura dei malati, perché ha capito che così servirà il Signore, Pierotto sta per laurearsi. Per ultimo, Aurelio annuncia a tutti, nonostante si renda conto che sarà difficile, la sua decisione d’intraprendere la carriera ecclesiastica: “Voglio diventare vescovo!” Percependo il tono orgoglioso e le intenzioni, sicuramente non delle migliori, Filippo gli chiede serio ed interessato: “E poi? …”. Un po’ imbarazzato, Aurelio risponde che, fatto il primo scalino, potrebbe ottenere qualche Nunziatura. Con tono paterno, ma allo stesso tempo incalzante, Filippo ribadisce: “E certo! E poi? …”. Il giovane, illudendosi di averne l’appoggio, gli risponde: “… e poi potrei diventare cardinale …”. “Cardinale!?!, … e poi? … E poi Papa?”, gli chiede, con tono perentorio Filippo. Confuso, Aurelio gli risponde: “… forse sì …”, ma Filippo, con sguardo compassionevole, gli rinnova la domanda iniziale: “E poi? …, e poi??? …”. “Poi basta, Filippo! La mia vita finirà …”, risponde con gli occhi bassi Aurelio. Allora Filippo, con dolcezza, lo richiama al senso della vita, invitandolo paternamente a chiedersi: “… ed allora che cosa avrai raccolto?”.
Purtroppo, Aurelio non fece tesoro dell’invito di san Filippo di ripensare al senso della vita al fine di non sprecarla per ciò che è effimero e passeggero (cf Mt 6,19-23; 2 Cor 4, 18), anzi, tradendo la sua fiducia, ne approfittò per spiare e raccontare alle autorità ecclesiastiche le scelte pastorali (audaci per quei tempi), di Filippo, che lo “ricompensarono”, concedendogli quello che aveva sempre desiderato: diventare vescovo, in Francia! Verso, la conclusione del film, riappare Aurelio, in sontuosi abiti episcopali nel grande parco del suo palazzo vescovile, circondato da monsignori ed amministratori che gli comunicavano il consistente incremento economico della sua diocesi. Pensoso e triste, scrive una lettera a Filippo, dove riconosce che pur avendo raggiunto tutto quello che ha da sempre desiderato, gli sembra di non avere niente. Ripensando alla sua vita, riconosce, alla fine, che Filippo aveva ragione, le cose più belle che ha avuto sono state la carezza di uno zingaro (che Filippo gli aveva chiesto di lavare dalla testa ai piedi: soprattutto i piedi!), ed il sorriso di Filippo, che, pur sapendo delle sue intenzioni e del suo tradimento, l’aveva sempre amato, come tutti gli altri suoi figli.
Ulteriormente interessante è che poco prima la proposta di questa intima presa di coscienza da parte di colui che sta facendo l’esperienza di aver buttato via la sua vita, il film fa vedere l’incontro di P. Filippo con il Papa (Clemente VIII: 1592-1605), che gli chiede di comunicargli la regole e le finalità della sua nascente comunità. Filippo con tremore, ma allo stesso tempo con serena fermezza, ricorda che per essere obbediti, servono poche regole (eh già! se i vari governanti tenessero un po’ più presente questa verità …), tra queste lui ne ha scelta solo una: la carità! Il Papa, profondamente toccato dall’onestà e dalla santità di padre Filippo, vuole crearlo Cardinale (“nessuno lo merita più di voi” gli dice commosso il Papa), ma colui che sarà chiamato il “secondo apostolo di Roma”, prende dalle mani del Santo Padre il Galero cardinalizio, che gli sta per imporre, e con santa ilarità gli chiede: “ Santità, io Cardinale??? Preferisco il paradiso!!!” e butta in aria il Galero.
Allora: “E poi? …”.
Anche ai nostri giorni, questa realistica e semplice domanda interroga ognuno, nessuno escluso, sul senso della propria vita, l’unica che ci è stata donata di vivere da parte di Dio, da amministratori e non da padroni (cf 1 Cor 4, 7). Oggi, come ieri, la cieca ambizione, l’egoismo e l’egocentrismo si traducono e si declinano, manifestandosi in svariati modi e situazioni, che devono essere però riconosciuti e smascherati se non si vuole sprecare la vita che ci è stata donata. Non dimentichiamolo mai: ne abbiamo solo una, e nella partita della vita, non sono previsti i tempi supplementari!
L’ossessione del potere, del fare “carriera” a tutti i costi, anche se non se ne hanno le capacità, rifiutando di riconoscere la realtà e dissociandosi patologicamente da essa, ambire a posti di autorità ed esercitare con arroganza impunita il potere che ne deriva, è un’esperienza che ognuno di noi fa ogni giorno: da quando sale su un autobus, a quando ha bisogno di una prestazione sanitaria, a quando chiede l’esercizio di un proprio diritto presso un qualsiasi ufficio, o presenta una semplice domanda o richiesta, senza avere a volte dall’altra parte qualcuno che, secondo le regole elementari dell’educazione, risponde almeno di aver ricevuto (auto-dispensandosi in nome di che cosa e di chi? Credo che alla fine sia soltanto, purtroppo, semplice maleducazione …). Il compromesso, la disonestà, la corruzione, la maleducazione, la mancanza di rispetto dovuto ad ognuno in quanto persona, la sistematica menzogna se non la calunnia, il promettere l’impossibile e favori in occasione delle elezioni o imbrogliando senza pudore durante le stesse al fine di essere eletti, sembrano essere ormai comportamenti “scontati/naturali” nei rapporti interpersonali (ed è questa la cosa grave e pericolosissima oggi), nei diversi ambiti sociali, nessuno escluso. Come ha acutamente osservato il Santo Padre Francesco nel discorso dopo la Via Crucis al Colosseo quest’anno, si è persa: “… la vergogna di aver perso la vergogna” (30-III-2018). Lascio alla memoria ed all’intelligenza di chi legge, il dare i volti e vedere i contesti di questa sacrosanta, anche se triste, verità.
Allora: “E poi? …”.
Però l’errore sarebbe il pensare, come il re Davide, che questo riguardi solo gli altri: “Tu sei quell’uomo!” (2 Sam 12, 7). Quanti “arrampicatori/carrieristi” che farebbero di tutto, come Aurelio, conosciamo o abbiamo conosciuto? Persone accecate dal potere e dal successo, che a volte, in preda ad una vera e propria smania ossessiva di onnipotenza, dimenticano di essere creature finite e che non si realizza la propria vita nell’essere “serviti” dagli altri o di “servirsi” delle istituzioni, ma nello scoprire la gioia vera che dà il mettersi al “servizio” degli altri, del bene delle istituzioni e quindi della persona. Dimenticando che un giorno saremo giudicati sull’amore con il quale avremo o non avremo vissuto, alla fine, solo su questo e su nient’altro (cf Mt 5, 1-12; Lc 6, 20-23; Mt 25, 31-46).
Allora: “E poi? …”.
L’augurio, che si fa preghiera, è che questa domanda, più prima che dopo, si ponga ed interroghi la coscienza di ognuno, nessuno escluso, affinché, come san Filippo, rispondiamo con generosità, scoprendo che tutto è dono che Dio ci chiede di donare a nostra volta (cf Mt 10, 8), e non come Aurelio, che troppo tardi scoprì di aver ottenuto tutto quello che voleva, ma di aver sprecato la cosa più importante, quello che era chiamato ad essere come figlio di Dio e fratello dei suoi simili. Però, ed è questa la possibilità che diventa speranza per ciascuno, anche se troppo tardi, Aurelio ha preso coscienza che l’essersi concetrato troppo sulle cose visibili e terrene gli ha fatto correre il rischio di non raccogliere ciò che è eterno (cf 2 Cor 4, 18). Questa presa di coscienza non è altro che la conversione! Quindi, alla fine, non è mai troppo tardi, finché c’è vita! Il bellissimo episodio, narrato da san Luca, del dialogo di Cristo con il “Buon ladrone”, ce lo ricorda con espressioni di profonda, appassionata, misericordia: “… ‘Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’. Gli rispose: ‘In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso'” (Lc 23, 42-43).
Sicuramente, più di qualcuno, starà pensando, nel leggere queste righe, che sono belle parole, pensieri che un sacerdote “deve trasmettere”, ma che la realtà, anche nella Chiesa, è ben altra cosa. Sono perfettamente d’accordo, ma proprio per questo è essenziale prendere coscienza del pericolo e soprattutto è fondamentale essere coscienti che questo modo di spendere la propria, lo ripeto di proposito,l’unica vita, non paga. Alla fine ci si scopre dei falliti, ma soprattutto che in nome del potere, del successo e di voler essere “onnipotenti”, di fatto ci si è condannati ad essere schiavi: “Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (2 Pt 2, 19).
Allora, chiediamoci sinceramente, in questo momento (soprattutto se stiamo operando delle scelte), cioè quel presente che è l’unico che ci appartiene nella sua pienezza, al contrario del passato e del futuro: “E poi?…”.