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Per la novena di Pentecoste

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Marie et les apôtres lors de la Pentecôte. Vitrail de l'église Sainte-Clotilde, à Paris.

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La Croce - Quotidiano - pubblicato il 17/05/21
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I carismi sono molti, nella Chiesa, ma uno solo è lo Spirito. Questo asserto permea di sé la coscienza della comunità credente fin dall’era apostolica, e si riverbera da venti secoli nella vita quotidiana dei cristiani. Coniugare necessaria unità e giusta molteplicità è spesso solo un miraggio, nelle istituzioni umane, e la stessa Chiesa fa fatica a vivere ciò di cui lo Spirito di Cristo, tuttavia, la rende capace. La sua vocazione, però, è questa – e la via resta segnata.

di Paul Freeman

“Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate” (At 2,15), dice: “Non sono ubriachi nel senso che voi intendete. Sono ebbri, sì, ma di quella sobria ebbrezza che fa morire i peccati e vivifica il cuore ed è l’opposto della ebrietà materiale. Sono ebbri in quanto hanno bevuto il vino di quella vite spirituale che afferma: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5)”. (Catechesi XVII,19; S. Cirillo Vescovo di Gerusalemme)

I doni dello Spirito del Signore, Dominum et vivificantem (Symbolum Nicænum), sono interconnessi. Sia per natura, che per esperienza. Non si può avere uno dei sette doni dello Spirito senza averne gli altri. Tuttavia allo Spirito, nella piena libertà, è concesso porre un accento ad uno di questi doni nel nostro cammino, cosicché si possa essere fecondi secondo Dio, nella Chiesa, con accenti e carismi specifici. A volte stabili o altre volte transeunti.

Ordinariamente i doni dello Spirito Santo, secondo il testo di Isaia al capitolo 11 dal versetto secondo all'inizio del terzo: “Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore...”

Da cui sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio.
Nel testo di Isaia non compare il dono della Pietà né il dono di Scienza. Si parla piuttosto del dono della "conoscenza".

Tale dono richiama tuttavia alcuni aspetti.

Anzitutto esso è dono legato ad una relazione intima. Per tale motivo tale dono di "conoscenza" non può essere che dono di relazione profonda. Non è dunque dato da conoscenza superficiale o da "scienza" cognitiva.
Esso viene poi posto in maniera retorico-binaria con il dono del timore del Signore.
Ora non è chiaro per quale motivo ma la versione dei LXX chiamerà il dono del Timor di Dio citato nel testo ebraico, dopo la "conoscenza", come dono di Pietà (εὐσεβείας). E distinguerà il dono del Timor di Dio all'inizio del versetto terzo come "Timor di Dio" (φόβου θεοῦ).

Una spiegazione possibile di questo potrebbe essere l'intenzione teologica della traduzione di legare la "conoscenza", e quindi il dono di "Scienza" ad un timore reverenziale più profondo, chiamando in causa la "Pietà", come dono di legame intimo, filiale con Dio. Più profondo del Timor di Dio.
Per cui il legame teologico, sapienziale e retorico, appare più chiaro tra la "conoscenza" (Scienza) e la "pietà".

Questi due doni, come vedremo, infatti, sono intimamente legati.
Il dono di Scienza, è stato richiamato ed illustrato diverse volte dalla teologia paolina nella lettera ai Corinzi (1 Cor 1,5), alla comunità di Efeso e nella lettera ai cristiani di Roma (Rm 11,33).
Più avanti vedremo il perché il dono di Scienza è così importante ed è legato al dono della Pietà.
Tuttavia, per motivi, per così dire, esistenziali, nel proporli all’attenzione nella catechesi, preferisco sempre dare loro un ordine diverso, più esperienziale, catalogato così:

• Il dono del Timor di Dio,
• il dono della Pietà,
• il dono di Scienza,
• il dono dell’Intelletto,
• il dono della Sapienza,
• il dono del Consiglio
• e il dono della Fortezza.

Spiego il perché.
Questo schema risponde meglio all’esperienza di Dio che compie ogni fedele, così com’è descritta dalla Sacra Scrittura.

Dono del Timor di Dio. Il Timor di Dio e la Pietà sono doni strettamente correlati e si pongono sia all’inizio che al culmine di ogni cammino cristiano. Entrambi sono doni che sottolineano un ordine necessario affinché ci sia un vero cammino. E l’ordine, nel perenne discepolato del cristiano, è molto importante.
Nel Timor di Dio mettiamo anzitutto in chiaro la relazione, e cioè che l’uomo riconosca se stesso come creatura.
È l’approccio di Mosè al Roveto. Dio arde ed invita a toglierci i calzari ai piedi per “entrare” al Suo cospetto.
È lui che stupisce, chiama, si rivela, prende l’iniziativa. Scende dal Suo trono per attrarci a Lui. Lui è Dio, il Creatore. Il Timor di Dio è il primo dono obnubilato dal “serpente antico” (Gn.3).
L’esperienza “carica di Timore”, dei patriarchi e di Mosè, la loro coscienza di essere davanti all’Altissimo, che tutto può e tutto compie, sarà necessaria alla riflessione sapienziale, nello Spirito Santo, per raccogliere, unificare, ispirare, in un unico processo guidato dallo Spirito, in tutte le sue fasi, il testo meraviglioso del Genesi, a cominciare dalla Creazione.
Posto questo dono l’uomo inizia il suo cammino alla luce di Dio.
Ogni esperienza dei santi nella Bibbia e del popolo di Israele nasce da questa consapevolezza ontologica: Dio è Dio e l’uomo è l’uomo. Con questa coscienza nasce l’ascolto vero e proprio, lo Shemà (Dt. 6,4), che porta fecondità nella vita del credente.
Il limite infatti del cammino di catechesi proposto nelle comunità parrocchiali o, paradossalmente, anche nelle facoltà teologiche, è proprio quello che in queste situazioni si parla di “contenuti” e di “nozioni”. Il ché è buona cosa, certo, ma nulla ha a che vedere con la Fede “esperita” se non ha in sé il dono del Timor di Dio, cioè la chiarezza, sempre più viva di essere creatura che sta al cospetto di Dio, amata da Lui.
“Il timore filiale occupa il primo posto tra i doni dello Spirito Santo in ordine ascendente, e l’ultimo in ordine discendente” (STh, II/II q. 19 a. 9) .
Molte delle lotte (inutili) all’interno delle nostre comunità nascono proprio dal fatto che abbiamo obnubilato questo incipit. Per questo, da altra parte, hanno “successo” i cammini ed i movimenti laicali e non, che lo Spirito suscita nel tempo; essi rendono vivo ed ordinano il cammino secondo questo dono dello Spirito Santo.

Dono di Pietà. Il dono della Pietà è il dono dell’intimità, della sponsalità e della rivelazione piena del Padre, per mezzo del Figlio. Solo il Figlio rivela il Padre. Mosè si toglie i calzari dai piedi per entrare in intimità con Dio, perenne purezza che arde e non consuma, ma vivifica (Es. 3,5). Ma anche i profeti successivamente fanno questa esperienza di intimità. Non sarebbe possibile la profezia se non a partire dall’intimità:
“..Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza” (Ger. 31,20)
Dio comunica nell’intimità, al profeta Geremia, i suoi “sentimenti”.
Anche l’intimità tradita del profeta Osea (Os. 1,2ss) rende possibile l’apologetica della profezia.
È proprio il legame stretto tra l’intimità di Dio e quella del profeta che rende possibile la comprensione analogica del “dolore” di Dio per l’infedeltà del Suo popolo.
Qui il dono della Pietà rende possibile una intimità significante che diventa, nel contempo, vocazione.
Ma il culmine dell’intimità lo “tocchiamo” nella rivelazione compiuta del volto di Dio. Gesù rivela il Padre.
Se, per pura ipotesi teologica, il peccato non fosse accaduto, sarebbe comunque stata necessaria l’incarnazione per rivelare il Padre. Solo il Figlio rivela il Padre.
Non solo a parole ma soprattutto nel Suo essere Figlio.
I discepoli lo vedono, lo respirano. In Cristo il dono della Pietà dello Spirito rifulge in maniera compiuta, inenarrabile. Dicono infatti i discepoli: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11, 1).
Insegnaci, non formule o parole, ma rendici intimamente partecipi della tua intimità con Dio. Qui sboccia il Padre nostro. L’Abbà, il caro papà mio e nostro. Se è vero che “..nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor.12,3), è altrettanto vero che nessuno può dire compiutamente Padre, Abbà, se non nel dono di Pietà dello Spirito (Gv. 17,24).

Dono di Scienza. Successivamente, il dono di Scienza dello Spirito, fa “vedere” il disegno di Dio sia a livello soteriologico globale, che personale.
L'intimità maturata con il dono della Pietà porta inevitabilmente al dono di Scienza. Si vede con gli occhi di Dio perché si è intimi con Lui.
Il dono di Scienza costituisce nel contempo sia l’oggetto del progetto soteriologico-creazionale partito dalla SS. ma Trinità che investe in Cristo e per Cristo, l’uomo e la storia, nello Spirito Santo e ritorna al Padre. Sia nel contempo la luce stessa per vedere tale “progetto”. Non è da confondere dunque con il termine “Scienza” che usiamo solitamente.
È un dono dello Spirito molto importante perché aiuta il discepolo a co-intuire, a vedere, quello che Dio vede.

Prima di essere un moto dell’intelletto ed un gusto della Sapienza è un moto di luce. Reso bene dal salmo. “Alla tua luce vediamo la luce” (Sl. 36,10).
È un dono che la nostra natura ferita ha, in certo qual modo, perso o comunque obnubilato dannosamente con il peccato originale. I nostri progenitori prima del peccato avevano questo dono in forma cristallina sapendo cogliere il “molto buono” il bellissimo, il perfettamente armonico (tov, tov) uscito dalle mani di Dio. “E Dio vede che ciò era molto buono (potremmo dire “non gli mancava nulla”)”(Gn.1,31).
Questa contemplazione di luce nella luce, era partecipata da Dio ai nostri progenitori. Essi vedevano con Dio.

Proprio il nemico, il serpente antico, va a toccare questa luce in maniera sibillina, come sappiamo (Gn.3).
Il dono di Scienza è un dono prezioso perché aiuta a compiere il discernimento su di sé, sulla nostra storia e sulla storia e si lega perfettamente al dono del Consiglio. Questa capacità di co-intuire in Dio è necessaria ad alcune vocazioni particolari. Ai sacerdoti. Ai genitori. Ai direttori spirituali. Ai catechisti. Ai pastori.

Dono di Intelletto. Il dono dell’Intelletto si muove invece come scrutatio e riflessione del co-intuito. Fa scrutare questo progetto con un certo appetito della mente e del cuore in tutte le sue profondità. E’ il dono delle profondità che tocca sia le proprie pieghe più profonde che quelle altrui. E’ un dono molto importante perché aiuta a rendere ragione della Speranza che è seminata nei nostri cuori. (1Pt.3,15)
E’ il dono che devono chiedere i teologi, i pastori, i catechisti, gli operatori pastorali. Gli opinionisti cristiani.
La teologia necessita di questo dono e, se è autentica, umile, non divide mai, perché unisce nella Verità. Ed ama farsi correggere da essa.

Dono di Sapienza. Il dono della Sapienza permette di “assaporare” questo progetto co-intuito dal dono di Scienza ed indagato dal dono dell’Intelletto e, nel contempo, di godere mentre si attualizza nella storia dell’umanità e a livello personale. Questo dono porta a compimento ciò che si è visto con il dono di Scienza e ciò che si è scrutato con il dono dell’Intelletto, fornendo via via “chiavi” interpretativo-profetiche sul disegno della Salvezza e della Creazione in Cristo. E’ pertanto legato strettamente al dono successivo del Consiglio ed è dono indispensabile nel discernimento vocazionale.

Come si vede chiaramente l’equilibrio tra il dono di Scienza, quello dell’Intelletto e quello della Sapienza è delicato.
Non può essere vissuto senza una robusta e gorgogliosa vita orante; senza l’incipit del dono del Timor di Dio e del dono di Pietà. Per questo, ad esempio, Francesco di Assisi, esperto nella carne, dell’orazione, scriveva al sacerdote e sommo teologo Antonio di Padova: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola.” (FF. 251-252).
Purché.. non estingua.
L’orazione, la devozione, la compunzione del cuore, sono dunque fiamma da alimentare costantemente.
Con tutti i mezzi spirituali. Persino e, talvolta, soprattutto, con quelli che la Provvidenza predilige: le umiliazioni e le prove.
Senza dimenticare – ed è fondamentale per la Chiesa di oggi, sovente, tutta impegnata in lunghi documenti e piani pastorali e strategie comunicative, spin doctor spirituali, riverniciature ad effetto – che Francesco di Assisi è l’inventore della vita religiosa moderna. Dell’itinerarietà predicante, diversamente dalla stabilitas loci dei monaci.
Eppure, egli che aveva girato in lungo ed in largo per l’Italia e il mondo allora conosciuto. Francesco che nel famoso Capitolo delle Stuoie del 30 maggio 1221 sperimenta un raduno di 5000 frati provenienti dalle varie parti del mondo. Senza televisione, senza internet, in pochi anni.

Dicendo chiaramente: “il Signore mi diede dei Fratelli” (FF.116). Ecco proprio lui, Francesco di Assisi, era “uscito dal mondo” e passava due terzi dell’anno in Quaresime, preghiere e digiuni. Per questo non dice “io ho raccolto” ma “il Signore mi diede”; il Signore mi “diede”.

Questo per ricordare compiutamente che, certo, molto importante è l’opera delle nostre mani, del nostro impegno, del nostro “spenderci” ma fondamentale è “l’essere rivestiti di Potenza dall’alto” (Lc. 24,49).
Così come ci apprestiamo nella imminente Solennità liturgica di Pentecoste.

Dono del Consiglio. Il dono del Consiglio è il dono del discernimento che permette di tradurre in scelta del “cuore” (in senso biblico) ciò che la scienza, l’intelletto e la sapienza hanno mostrato. E’ dunque il dono necessario per avere una “coscienza ben formata” (CCC. 1776ss; Conferenza Stampa di Papa Francesco nel volo di ritorno verso Roma, 18.02.2016)
E’ il dono della Direzione spirituale. Sia personale, sia strutturata e metodica in un cammino con una Guida Spirituale, sia in un cammino comunitario.
Dono indispensabile per i genitori. I sacerdoti. I Vescovi, i Consigli Pastorali, gli operatori istituzionali per e nel bene comune.
E’ dono delicato, sia del foro interno che del foro esterno, e non può prescindere da quanto detto sin d’ora.

Dono di Fortezza. Il dono della Fortezza permette l’attualizzazione della scelta operata dal Consiglio anche nelle situazioni difficili, ordinarie o straordinarie. E’ il dono della testimonianza compiuta anche quando vi sono occasioni impossibili da superare. E’ il dono del Martirio. Del dono di sé colmo e traboccante: “nondum usque ad sanguinem restitistis adversus peccatum repugnantes” (Eb. 12,4)
Quando autentico, il dono della Fortezza non è mai “contro” qualcuno, neanche fosse, oggettivamente, il più ripugnante uomo della terra a causa delle sue scelte e delle sue azioni. Il dono della Fortezza è contro il peccato. Contro la parte malata del nostro cuore, anzitutto. Poi contro i frutti del peccato.

Tale dono non produce cuori rigidi, ma audaci e fermi. Cuori impavidi. Non produce cuori “sclerocardici”, moralistici, ma paterni e materni assieme. Accoglienti e fermi.
E’ dunque, anch’esso dono importante in ogni settore educativo. Dalla direzione spirituale/educativa dei genitori a quella dei pastori d’anime. E, non ultimo, è dono necessario per la fedeltà. Fedeltà alla propria parola e alle proprie scelte verso il bene. Fedeltà vocazionale. E come dice l’apostolo: “Perciò, chi pensa di stare in piedi guardi di non cadere.” (1Cor. 10,12) E si faccia sostenere dai fratelli (Giac. 5,16).

Bereshit. Ritorno al Principio. In ultimo ritorniamo, nuovamente, ai doni del Timor di Dio e della Pietà, dove la creatura illuminata dallo Spirito, rafforzata nelle scelte ed essendo abilitata a compierle riconosce ancor più compiutamente che Dio è Dio e non ve n’è altri (Dt. 4,39) e che soprattutto, Dio è Padre, anzi Abbà, cioè “caro Papà nostro” (Abùn, Mt. 6,9-13).

Il dono della Pietà si ri-presenta dunque come il culmine dell’azione dello Spirito Santo.
Pronunciare la parola “Padre”, con sempre più perfetta resa ed abbandono, è sia incipit che culmine del nostro cammino. Unica e reale fonte di autostima. E’ ciò che ci rende autenticamente uomini e autenticamente donne.
Il Padre.
E se Francesco di Assisi pronunciando la parola “Gesù” si leccava le labbra (FF. 470)... cosa dovremmo fare noi nel pronunciare la parola “Padre”?

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