Parole profetiche su quelli che oggi il suo successore Francesco chiama “gli scartati”. Un’analisi realistica sui grandi squilibri e sulle conseguenze dell’esodo verso i grandi agglomerati urbani. Una critica all’ideologia marxista e al suo materialismo ateo, ma anche una critica all’ideologia liberale che meno di vent’anni dopo avrebbe prevalso aprendo definitivamente la strada al turbo-capitalismo. Correva l’anno 1971, e il 14 maggio Paolo VI celebrava l’ottantesimo anniversario della Rerum novarum di Leone XIII con una lettera apostolica indirizzata al cardinale Maurice Roy, arcivescovo di Quebec e presidente del Pontificio consiglio per la Giustizia e la pace. Il documento montiniano, che tratta di povertà e sviluppo e di impegno politico, va letto sulla scia della Populorum progressio (1967) ma anche alla luce dei cambiamenti intervenuti in quegli ultimi anni.
Il Papa parla delle “differenze evidenti” che “sussistono nello sviluppo economico, culturale e politico delle nazioni”, ricordando i popoli in lotta contro la fame. Sancisce che modalità di azione, di impegno e di intervento concreto vanno lasciate al giudizio delle singole realtà locali, perché “spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili dell’evangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa”.
Attira quindi l’attenzione su un fenomeno di grande importanza che caratterizza sia paesi industrializzati, sia quelli in via di sviluppo: l’urbanesimo e l’esodo dalle zone rurali verso le metropoli. “In questa crescita disordinata nascono, infatti, nuovi proletariati. […] Invece di favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, la città sviluppa le discriminazioni e anche l’indifferenza; fomenta nuove forme di sfruttamento e di dominio, dove certuni, speculando sulle necessità degli altri, traggono profitti inammissibili. Dietro le facciate si celano molte miserie, ignote anche ai più vicini”.
Paolo VI, che da arcivescovo aveva constatato i problemi delle nuove periferie milanesi negli anni del boom economico, e che anche da Papa continuava a seguire con attenzione e con aiuto concreto lo sviluppo delle periferie romane, finanziando ad esempio la costruzione di 99 appartamenti nel comprensorio di Acilia da destinare ai baraccati dell’Urbe, scrive: “È urgente ricostruire, a misura della strada, del quartiere, o del grande agglomerato, il tessuto sociale in cui l’uomo possa soddisfare le esigenze della sua personalità. Centri di interesse e di cultura devono essere creati o sviluppati a livello di comunità e di parrocchie”.
Un passaggio della Lettera è dedicato alle donne. Paolo VI, che l’anno precedente aveva proclamato due donne dottori della Chiesa – Teresa d’Avila e Caterina da Siena – chiede che cessino le discriminazioni e che le legislazioni vadano “nel senso della protezione della vocazione propria della donna stessa e, insieme, del riconoscimento della sua indipendenza in quanto persona, dell’uguaglianza dei suoi diritti in ordine alla partecipazione alla vita culturale, economica, sociale e politica”.
Accennando alla crescita demografica nei paesi poveri, Papa Montini definisce “inquietante” quella “specie di fatalismo, che s’impadronisce persino dei responsabili” e “conduce talvolta a soluzioni maltusiane, esaltate da un’attiva propaganda a favore della contraccezione e dell’aborto”. Il Pontefice parla anche di ambiente e avverte che “attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura”, l’uomo “rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”.
Citando l’impegno sociale e politico, Paolo VI invita il cristiano a non aderire “a sistemi ideologici che si oppongono radicalmente o su punti sostanziali alla sua fede e alla sua concezione dell’uomo: né all’ideologia marxista, al suo materialismo ateo, alla sua dialettica di violenza e al modo con cui essa riassorbe la libertà individuale nella collettività, negando insieme ogni trascendenza all’uomo e alla sua storia, personale e collettiva; né all’ideologia liberale che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola a ogni limite, stimolandola con la ricerca esclusiva dell’interesse e del potere”.
Infine, in quello che è forse il passaggio più ricordato del documento, il Papa si esprime in favore della pluralità di opzioni politiche per il cristiano, senza far venir meno la sua adesione ai principi evangelici: “Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi”.
Due giorni dopo la pubblicazione dell’Octogesima adveniens, domenica 16 maggio, Paolo VI presiedeva in San Pietro una Messa per celebrare l’anniversario dell’enciclica di Leone XIII, definendo la parola del predecessore “liberatrice e profetica”. L’omelia rappresentò l’occasione per spiegare le ragioni del magistero sociale della Chiesa: “Perché il Papa parlò? Ne aveva il diritto? Ne aveva la competenza? sì, rispondiamo, perché ne aveva il dovere. Qui si tratterebbe di giustificare questo intervento della Chiesa e del Papa nelle questioni sociali, che sono di natura loro questioni temporali, questioni di questa terra, dalle quali sembra esulare la competenza di chi trae la sua ragion d’essere da Cristo, che dichiarò il suo regno non essere di questo mondo”.
Ma, “a ben guardare - continuava Paolo VI - non si trattava per il Papa del regno di questo mondo, diciamo semplicemente della politica o dell’economia; si trattava degli uomini che compongono questo regno, si trattava dei criteri di sapienza e di giustizia che pure devono ispirarlo; e sotto questo aspetto la voce del Papa, che si faceva avvocato dei poveri, costretti a rimanere poveri nel processo generatore della nuova ricchezza, avvocato degli umili e degli sfruttati, non era altro che l’eco della voce di Cristo, il quale si è fatto centro di tutti coloro che sono tribolati ed oppressi per consolarli e per redimerli; e che volle proclamare beati i poveri e gli affamati di giustizia, e volle altresì personificarsi in ogni essere umano, piccolo, debole, sofferente, disgraziato, assumendo sopra di sé il debito di una ricompensa smisurata per chiunque avesse avuto cuore e rimedio per ogni sorta di umana miseria”.
Da questo deriva, aggiungeva il Vescovo di Roma, “un diritto-dovere del Papa, che rappresenta Cristo, e della Chiesa tutta, ch’è pure il Corpo mistico di Cristo, anzi d’ogni autentico cristiano, dichiarato fratello d’ogni altro uomo, di occuparsi, di prodigarsi per il bene del prossimo; diritto-dovere tanto più forte ed urgente quanto più grave e pietosa è la condizione del prossimo nel bisogno”.
“E vuol dire ancora - concludeva Paolo VI - che la Chiesa, nei suoi ministri e nei suoi membri, è l’alleata per vocazione nativa dell’umanità indigente e paziente; perché la salvezza di tutti è la sua missione, e perché tutti hanno bisogno d’essere salvati; ma la sua preferenza è per chi ha bisogno, anche nel campo temporale, di essere aiutato e difeso. Il bisogno umano è il titolo primario del suo amore”.