Poco prima che scoppiasse la pandemia, poco dopo aver superato lo psicodramma mondiale per il sospetto di tracce di olio di palma nei nostri alimenti, si è imposta un'altra forma di ossessione collettiva. La cosiddetta dittatura della felicità.
Oh, come va? Come stai? Mi raccomando, pensa positivo! L'importante è crederci, dai forza, sta a te. Devi stare bene, pensare bene, mangiare bene, dormire bene.
Era come avere un molesto e non richiesto life coach pronto a sollecitarci di continuo a stare bene. Eccolo che arriva: "Ehi, non buttarti giù, dai forza, dipende da te!"
Ma la pandemia è arrivata e per molti, moltissimi di noi, i motivi di tristezza, paura, solitudine, vera e propria angoscia, hanno fatto breccia in quelle mura di emozioni solide come carta fradicia ed è venuto giù tutto. Siamo anche tristi, a volte. Possiamo essere tristi, un po' dispiaciuti almeno?
Eccome.
Per un po' il fiumiciattolo del pensiero positivo debole ha trovato altre vie, su su per le grondaie si è affacciato ai balconi con striscioni e hashtag e disegni. #andràtuttobene era la versione avanzata del benessere che prima, quando problemi così grossi e condivisi ci pareva di non averne - e non era vero - dovevamo rincorrere e socialcondividere ad ogni click sospinto.
Oh, che liberazione. Si può, invece, essere tristi.
Sai cosa? Addirittura si deve, in certi casi. Se siamo deprivati di cose importanti, se abbiamo fame, se ci manca il lavoro, se siamo soli, se non arrivano i figli desiderati, se nostro marito o nostra moglie ci tradisce. C'è tutto uno spazio, prima di dichiarare la nostra resa a quella "strana letizia", che va pestato con passi e cuore pesante. Non vale risolverla in una speranza a buon mercato. Quella vera, di speranza, non aveva un prezzo tanto stracciato, così dice Chi ce l'ha comprata.
Lamentarsi è parecchio biblico, osserva Giuseppe Signorin in uno dei suoi ultimi post
Ho un ricordo personale che mi consola ogni volta che torna, a questo proposito. Fu il Card. Caffarra a dirmi, con una dolcezza perentoria, che dovevo proprio lamentarmi e rivolgermi a Dio con le Lamentazioni.
E lì ho capito che il cuore della faccenda non è con quale stato d'animo mi rivolga a Dio, vanno bene tutti purché io stia con Lui, alla Sua presenza (capace di cambiarmi). Può andare bene che mi arrabbi persino, come una bambina che non vede e non ricorda per esempio che è stato Lui a riempire oceani e fiumi e a piallare monti o tirarne su a catene.
E allora sia, lamentiamoci. Ma facciamolo con nostro Padre che è buono e può tutto e senza esagerare; non che Dio si stufi, ha l'animo particolarmente largo e viscere di misericordia particolarmente ospitali e tutto l'eterno a disposizione; ma noi sì; a lamentarsi sempre ci si auto ammorba, ci si appesantisce con una zavorra che poi al momento del volo non riusciamo più a lasciare a terra.
E siccome per tutto c'è un programma, uno schema di allenamento, e in caso di necessità pure degli spiegoni video (si dice tutorial in realtà), ecco un'ottima idea per invertire la tendenza: invece di lamentarti, ogni volta che hai voglia di lamentarti, fai l'opposto: ringrazia!
Se ce l'hanno fatta i santi, sia a lamentarsi che a ringraziare per cose che non avevano affatto l'aria di essere dei doni, perché non dovremmo farcela noi?
La gratitudine è un assetto molto più adatto alla vita, anche a quel benessere che per l mondo pre-pandemia dovevamo per forza raggiungere e dimostrare di aver raggiunto.
La gratitudine, da par suo, è gratis e produce il suo effetto sempre, anche quando non è sentita. Dio tiene conto dello sforzo, dell'orientamento della nostra volontà, del fatto che ci dispiaccia non sentire nulla. E a forza di insistere può diventare una nuova sana abitudine o addirittura un habitus.
Potremmo fare come fanno i runners dell'ultima ora: due, tre minuti al massimo di corsa e poi camminata veloce, aumentando piano piano la durata della corsa e diminuendo la camminata (a parte che le calorie si bruciano anche camminando).