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Quel pro-life di George Orwell

GEORGE ORWELL
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Emiliano Fumaneri - pubblicato il 04/05/21
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George Orwell – l’autore di 1984 e della Fattoria degli animali – è stato l’insuperato critico del totalitarismo e di quella perversione del linguaggio da lui battezzata col nome di neolingua. È cosa nota ai più.

Meno noto è il fatto che George Orwell sia stato anche un convinto antiabortista.

Un silenzio che non appare fortuito, visto che la cultura di morte in cui siamo immersi produce quotidianamente dosi massicce di neolingua per impedire di articolare pensieri a difesa della vita nascente.

Ma come motiva Orwell il suo rifiuto dell’aborto? Certo non a partire da una qualche fede religiosa, considerato il suo robusto agnosticismo.

Per avere una risposta allora bisogna cercare altrove. E si scopre che Orwell è contrario all’aborto in nome della common decency, la «decenza comune».

Con questa espressione lo scrittore britannico vuole indicare, come scrive nel suo saggio su Dickens, l’«istintiva correttezza morale dell’uomo comune». La common decency è quell’innato senso morale che guida il popolo degli umili, dei semplici, dei lavoratori.

Tutta questa gente semplicemente sa, sente nel profondo che c’è un grado minimo di civiltà sotto il quale la società scivola verso l’indecenza e si disumanizza. Questa percezione è alla base di quell’impulso che porta la gente comune a schierarsi spontaneamente dalla parte dei deboli contro i forti, a difendere istintivamente i vinti dall’oppressione dei vincenti.

L’idea è che ci sono cose indecenti, che semplicemente non si fanno. Ed è indubbio che per Orwell una di queste cose indecenti consiste nell’eliminazione della una vita inerme di un bimbo.

L’antiabortismo orwelliano trova espressione già nell’articolo Gli inglesi del 1944, nel quale Orwell deplora il fatto che «nell’Inghilterra degli ultimi trent’anni tutto è sembrato troppo naturale […] tanto che l’aborto, teoricamente illegale, dovette essere considerato nient’altro che un peccatuccio».

Ma la posizione pro-life di Orwell emerge soprattutto nel racconto Fiorirà l’aspidistra (1936). Il ventinovenne Gordon Comstock, protagonista del libro, è il rampollo di una famiglia signorile decaduta che sogna di diventare poeta in una società dominata dal denaro. Nel frattempo, mentre cerca di realizzare il suo sogno, si mantiene lavorando come commesso in una libreria.

Non si può dire che Gordon brilli per rigore e determinazione. Tanto è vero che quando finalmente riesce a guadagnare qualcosa grazie ai suoi versi pensa bene di sperperare il denaro dandosi all’alcool e alla dissolutezza.

A un certo punto, tuttavia, il suo stile di vita bohémien viene sconvolto da una notizia inattesa. La sua ragazza, Rosemary, gli annuncia molto seccamente: «Aspetto un bambino, Gordon».

In prima battuta Gordon non riesce a pensare al piccolo che cresce nel grembo della fidanzata come a un essere vivente. La sua prima reazione è lo sgomento: il bimbo è solo un pensiero nero, un’astrazione che gli si impone come un disastro puro e semplice.

È uno stato d’animo che cambia repentinamente non appena Rosemary gli prospetta una via d’uscita. La donna lo informa, qualora Gordon non se la sentisse di sposarla, di aver avuto da una collega un indirizzo dove c’è la possibilità di «sistemare tutto con cinque sterline soltanto»…

Questa allusione all’aborto (diciamo pure un anticipo di neolingua) fa scattare qualcosa in Gordon. Come se fosse stata toccata una qualche corda segreta, in lui si produce una sorta di trasformazione interiore: «Per la prima volta egli afferrò, col solo genere di comprensione che conti, di che cosa stessero realmente parlando. Le parole “un bambino” avevano assunto improvvisamente tutto un nuovo significato. Non significavano più un semplice disastro astratto, ma un germoglio di carne, un minuzzolo di se stesso, giù, nelle profondità del suo seno, vivo e in sboccio. I loro occhi s’incontrarono; ed entrambi ebbero uno strano momento di simpatia profonda, quale non avevano mai conosciuto prima. Per un attimo Gordon sentì che in un certo modo misterioso entrambi erano d’una sola carne. Sebbene fossero a una distanza di alcuni passi l’uno dall’altra, gli parve che fossero congiunti, uniti insieme, quasi che un cordone invisibile e vivo fosse teso dal suo ombelico a quello di lei. Ed egli capì allora ch’era una cosa orribile quella ch’essi meditavano, una bestemmia, dato che questa parola abbia un senso. E nello stesso tempo se fosse stata formulata in un altro modo, egli avrebbe potuto non esserne rivoltato. Era stato il sordido particolare delle cinque sterline che lo aveva scosso».

Con ogni evidenza, Gordon è rapito da una intuizione imperiosa: quella vita che si sta formando nell’oscurità fa misteriosamente parte di lui; a unirli è un legame infrangibile. Ma la coscienza di Gordon reagisce anche al pensiero (il «sordido particolare» che funge da innesco) che la vita umana possa avere un prezzo. Un’esistenza può mai valere cinque miserabili sterline? La risposta di Gordon – cioè di Orwell – è chiara: no, non può.

Lo smarrimento iniziale ormai è completamente scomparso. Gordon non parla più come un adolescente impaurito. La coscienza della paternità lo ha reso lucido, determinato, coraggioso. E ha un’idea molto precisa di quel che non va fatto: «Qualunque cosa accada, non faremo mai una cosa del genere. È disgustosa. [..] Preferirei tagliarmi la mano destra piuttosto che fare una cosa tanto orribile!».

Così facendo Orwell si rende colpevole di alcuni imperdonabili peccati agli occhi di un pro-choice come il liberal Christopher Hitchens, che glieli rimprovera nel suo libro La vittoria di Orwell.

Apprendiamo così che la prima pecca di Orwell sarebbe stata la sua «ampia avversione o diffidenza per tutto ciò che non è naturale». Una diffidenza che per giunta sembra andare di pari passo «alla sua repulsione per il controllo delle nascite e per l’aborto».

Sebbene Orwell non abbia trattato in maniera sistematica nessuno di questi due temi, «tuttavia se ne dissociava con disgusto ogni qualvolta venivano portati alla sua attenzione». Lo mostra, prosegue Hitchens, il fatto che «tutte le volte che ha descritto un futuribile e irrazionale stato-controllore, la lista delle caratteristiche distopiche comprendeva uno sprezzante riferimento a qualche clinica per il controllo delle nascite o per la pratica dell’aborto».

Peggio ancora, Orwell è stato anche un deciso oppositore del malthusianesimo: «E quando invece il soggetto era la popolazione, egli era dell’idea, lugubre e antimalthusiana, che essa non si riproducesse con sufficiente velocità e vigore».

Il secondo peccato è la sua eccessiva fiducia nell’istinto, come prova la reazione di Gordon Comstock al pensiero dell’aborto. «Conosciamo la sciocca e lamentosa voce di Comstock abbastanza bene da capire che è Orwell stesso che parla quando Gordon, improvvisamente maturo, vive la propria epifania», sentenzia sprezzante Hitchens.

In buona sostanza, l’antiabortismo di Orwell sarebbe il prodotto di un pregiudizio irrazionale.

Tuttavia, con buona pace di Hitchens, basta osservare con attenzione il comportamento successivo di Gordon per accorgersi che ad Orwell non bastava certo fare assegnamento solo sul sentimento e sull’istinto. La common deceny non esclude, anzi richiede lo spirito critico.

Già, perché Gordon non è affatto soddisfatto del suo istinto. Cerca il conforto dei fatti e della ragione. È così, mentre rimugina dopo l’incontro con Rosemary, che si avvede della presenza di una biblioteca pubblica lì nei paraggi. Accorgendosi di aver solo una vaga idea di quel che rappresenta una gravidanza, decide di entrare per consultare testi di ginecologia e ostetricia. Qui una occhialuta bibliotecaria gli procura due grossi volumi che lo introducono nel mondo dell’embriologia umana. Il giovane Comstock inizia così a studiare, osserva le illustrazioni di feti di sei e nove settimane, ragiona, arriva a delle conclusioni logiche.

In altre parole, Gordon applica il metodo scientifico: ottiene risultati verificabili a partire da un ragionamento logico basato su fatti osservabili. Anche questo è un atteggiamento tipicamente orwelliano. Per sincerarsene basta leggere quanto scrive in Che cos’è la scienza? (1945) a proposito dell’educazione scientifica come acquisizione di un metodo di pensiero rigoroso – qualcosa di ben diverso dal fare professione di fede in un corpo di scienziati sedicenti infallibili!

L’osservazione delle immagini provoca in Gordon questo genere di pensieri: «Il suo bambino gli era parso reale dal momento in cui Rosemary aveva parlato di aborto. Ma qui, sotto gli occhi, aveva il processo vero e proprio dell’accadimento. Eccola là, la creaturina mostruosa, non più grossa di un grano di ribes, ch’egli aveva creato col suo atto imprudente. Il suo avvenire, forse la continuazione della sua esistenza, dipendevano da lui. E poi, era un frammento di Gordon Comstock, era Gordon Comstock. Chi poteva osar di scansare una responsabilità cosi grande?».

Insomma, George Orwell aveva ben chiaro un concetto: che la ragione e il sentimento, il cervello e le viscere devono darsi appuntamento nel cuore dell’uomo. Un simile incontro non è un optional: è una necessità se vogliamo restare umani. È qui, in fondo, che si radica il grande senso di responsabilità verso la vita nascente infuso da Orwell nel personaggio di Gordon Comstock.

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