Abbiamo un bel credere in Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra, nel credere la vita eterna, i più sublimi misteri del cristianesimo; abbiamo un bel confessare che il nostro destino è grandioso, che adottandoci quali figli nel Figlio Gesù Cristo Dio Padre ha fatto di noi dei re… tanta grandezza non toglie che le nostre esistenze si svolgano perlopiù nella banalità, nella routine… quando non nella mediocrità di ripetizioni.
Che contrasto, fra la sublimità e le promesse della religione di Cristo e la routine quotidiana! La gravità ci assoggetta alla gleba, laddove ci avevano lasciato intravvedere una eroica parabola da soldati di Cristo! Non ci sarà forse un malinteso a monte?
In fondo a che serve credere alla signoria di Gesù Cristo sull'universo, confessare che tutte le potenze gli sono sottomesse, se poi quanto a noi vegetiamo nel trantran anestetizzante e poco gratificante di una quotidianità terra terra? Non è che abbiamo capito male? A che serve essere diventati figli di Dio se poi dobbiamo occuparci giorno dopo giorno di faccende prosaiche?
Ci vagheggiavamo missionari intrepidi come Francesco Saverio, evangelizzatori audaci o campioni della carità come Vinzenzo de’ Paoli… e alla fine ci ritroviamo a spazzare casa nostra, a sopportare brontolando il meno possibile il ritardo dei trasporti pubblici per andare a lavoro, dove compiremo spesso mansioni ripetitive subendo il temperamento poco ameno dei nostri colleghi, i quali non ci comprendono e facilmente neanche sospettano l'esistenza delle nostre aspirazioni spirituali!
E allora? Cristo ci ha ingannati quando ci ha promesso che saremmo stati sale della terra e luce del mondo? Come conciliare la prosaicità delle nostre vite con la dimensione soprannaturale in cui crediamo che esse evolvano?
Per rispondere a tali questioni è importante assimilare a fondo questa verità: la qualità di una vita cristiana non consta anzitutto nella grandezza dei nostri atti, ma nella nostra comunione con Cristo quando poniamo i suddetti atti – siano essi spettacolari o banali e ripetitivi.
Per dirla ancora meglio: non sono tanto le nostre azioni che decidono della fecondità della nostra esistenza, quanto il nostro attaccamento al Risorto. L'importante è implicarlo in quel che facciamo in modo da compierlo con lui, anzi da lasciare che egli stesso operi in noi. Infatti non siamo più noi, ma è Cristo stesso che opera in noi: agire in sinergia col Risorto – questo è il segreto della fecondità di un'esistenza cristiana.
Per questo è necessaria un'unica condizione: essere uniti a Lui nella preghiera, nei sacramenti, nel pensiero, nell'affetto, nell'amicizia. Ecco una verità consolante perché i cristiani non hanno, in genere, grandi responsabilità agli occhi del mondo. E tuttavia, lasciando agire Cristo in sé, il credente “di base” è anch'egli in grado di far progredire l'avanzata del Regno assai meglio di personaggi di pubblica fama.
Allo stesso modo, ancora prima di provare ad amare Dio è necessario lasciarsene amare, e questo si fa unendosi a Cristo, prima di lanciarsi nell'evangelizzazione o in qualsivoglia attività caritativa.
Il Risorto diventerà così il moltiplicatore dell'effetto dei nostri sforzi. Quanto allo Spirito Santo, egli porterà i suoi effetti ben al di là delle conseguenze e dei frutti che di primo acchito potremmo aspettarci: è così che l'amicizia con la divina Trinità condiziona la riuscita di tutte le nostre imprese. Ecco perché è cosa vitale coltivarla incessantemente, ricordando ciò che Gesù disse a Marta, che si affannava lamentandosi della sorella Marta assorta in ascolto del loro ospite: «Maria ha scelto la parte migliore» (Lc 10,42).
A Dio non dobbiamo “provare” alcunché. Il modo migliore per lavorare alla Sua Vigna consiste nell'operare per amore, gratuitamente, senza preoccuparsi troppo dell'importanza delle nostre attività. Il Signore si occuperà di farle fruttificare.
Un atto posto col cuore, senza secondi fini, possiede più potenza della più grande impresa del mondo, ove il suo scopo fosse quello di “guadagnarsi” la grazia divina. Certo non è un fine disdicevole, quest'ultimo: nel credente, esso denota fede e zelo. Però l'amicizia con Cristo agisce in un cuore libero e fiducioso, certo che il Risorto fa più caso alla nostra fede che alle nostre mancanze, in ordine al compimento dell'opera. È lui che provvederà alla gran parte del lavoro: perché allora farsi venire ansie da prestazione? L'essenziale è restare uniti al suo Cuore, come san Giovanni. Questa è la condizione migliore perché i nostri lavori portino frutto, perché il Regno progredisca nel mondo e nel cuore degli uomini.
Questa verità risplende in tutto il suo fulgore quando ci è chiesto di sop-portare i sacrifici che la vita ci riserva e che non sempre abbiamo scelto. È restando uniti Gesù sulal Croce che il nostro rinunciare a noi stessi sarà più fruttuoso: unendo la nostra abnegazione o la nostra sofferenza alla Passione di Cristo trasformeremo infallibilmente la nostra personale via crucis, speso oscura e negletta ai nostri simili, in opera di Salvezza.
La Croce diventerà così la leva di Archimede che rende le nostre modeste forze capaci di sollevare montagne.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]