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Si estinguono le specie: cosa accade all’uomo?

NATURE
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 29/04/21
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Nel numero de La Civiltà Cattolica in uscita dopodomani un gesuita africano riporta alcune suggestive tradizioni locali e le rilegge alla luce della sapienza biblica e della storia del pensiero filosofico.

V’immaginate che sarebbe, se ai nostri figli raccontassimo favole come la volpe e il corvo, la rana e il bue, dunque antiche e moderne, in un contesto privo di volpi, corvi, rane e buoi? Se ad esempio un cataclisma estinguesse queste specie, come verrebbero intesi quei racconti? 

Di Pindaro e di Platone – nonché, più “recentemente”, di sant’Ambrogio – fu detto che sciami di api si posassero sulle loro labbra quando erano ancora in fasce: leggendario segno della dolcissima fluidità dei loro eloqui… per chi conosce le api… ma che potrebbero mai intendere i nostri nipoti se la crisi climatica in atto giungesse davvero a estinguere gli insetti melliferi? Diventerebbero le api – per i bambini che ne udissero parlare – assimilabili a fatine e folletti dei boschi, ossia animali mitologici?, oppure si unirebbero nel loro immaginario ai remotissimi dinosauri, esistiti sì ma tanto tanto tempo fa e in un mondo tutto diverso da quello che conosciamo? 

Ci riporta a uno scenario analogo, ma per noi esotico, il gesuita malawiano Wilfred Sumani, il quale ha raccolto in un articolo in uscita questo sabato sul prossimo numero de La Civiltà Cattolica alcuni ricordi d’infanzia consertandoli a valutazioni più globali: 

E fin qui è lo scenario universale in cui germina il genere letterario della favola – a ogni latitudine e in ogni epoca –; poi l’imprevisto: 

C’entrano molto le età industriali, naturalmente, ma l’articolo di padre Sumani non contiene tanto i soliti (e non ingiustificati) lai sui fluoroidrocarburi – egli ricorda ad esempio che il Bos taurus primigenius (di cui parlano forse, fra gli altri, Num 23,22; 24,28 e Sal 29,6) si è estinto «nel 1627, in Polonia» (ivi, 261). E chiaramente il bracconaggio, a differenza dei motori a scoppio, non si è certo diffuso a partire dal XIX secolo… ma qui non è neppure questione di dire quanto è cattivo l’uomo e quanto è bella la natura. Ingenuità romantiche che lasciano il tempo che trovano.

Il Gesuita si rimette invece (e ci rimette) alla scuola di sant’Ambrogio, che nel nono libro dell’Esamerone – dopo aver descritto «la natura e il comportamento di varie piante e animali», con «dettagli così copiosi» da dare l’idea di «un testo di biologia o di geografia» (ivi, 256) – propone l’obiezione fittizia di un ipotetico interlocutore che chieda ragione della pertinenza di tanta divagazione: 

È il nono discorso, l’ultimo, pronunciato durante la settimana santa del 387 (proprio quella al termine della quale il Vescovo avrebbe battezzato Agostino!): il popolo ammirava molto l’eloquenza di Ambrogio e pendeva dalle sue labbra, letteralmente, per ore ed ore; era però il momento di “stringere” e di capitalizzare per gli ascoltatori il senso di quella lunga serie di «immagini del National Geographic» (ivi, 256). 

Normalmente i cristiani che ascoltavano Ambrogio non dovevano avvertire grandi dilazioni nelle loro aspettative, visto che la tendenza esegetica del Vescovo era generalmente molto allegorizzante (cioè tutti gli spunti materiali del testo venivano immediatamente convertiti in “sensi spirituali”, e dunque un animale significava una virtù e un altro un vizio, oppure diventavano premonizioni della storia della salvezza): l’Hexameron, però, è in tal senso anomalo, come già quasi quarant’anni fa aveva rilevato Manlio Simonetti. 

Certamente c’è in Ambrogio un “senso morale” della minuta rassegna su fauna e flora, e padre Sumani vi fa volentieri riferimento: 

Ora qui si potrebbero integrare, forse non inutilmente, le considerazioni del Gesuita docente a Nairobi, laddove egli scrive: 

Ma non esiste affatto – questo è il punto – un “mondo non umano”, né può esistere. Non lo scriviamo tanto sulla scorta di Heidegger e dell’esistenzialismo europeo novecentesco, quanto anzitutto del dato biblico: 

In età moderna si è spesso stressato questo testo per affermare una presunta supremazia dell’uomo sul creato, laddove invece i Padri della Chiesa e i Dottori medievali vi riconducevano l’antica corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo: il dato veramente stupefacente di questo versetto, piuttosto, è che il Dio creatore, quello che «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rom 4,17), sembra curioso di vedere come il suo Adamo – fatto «a immagine di Dio» – avrebbe a sua volta chiamato quelle cose. 

Dio lascia che sia l’uomo a dare le ultime ma sostanziali pennellate sulla propria opera, e questo non soltanto partecipa all’uomo qualche virtù della Creazione stessa, bensì gli stende fin dal principio una via maestra per la conoscenza di sé stesso e per l’ascesa a Dio. Per questo motivo Ambrogio riconosce (e Sumani lo riporta) che 

È un Padre della Chiesa che parla – e uno dei massimi! –, non gli sceneggiatori di Avatar o di altre narrazioni misantropiche: il primato della rivelazione naturale sulle discettazioni sta anzitutto nel fatto che le buone discettazioni si fanno a partire da una retta osservazione della natura, mentre le cattive sono parole che contorcono su altre parole – dunque nessun approccio epistemologico sarà mai più sicuro del ripartire da essa. 

Forse c’è una lieve differenza di prospettiva, in padre Sumani, e la si potrebbe evincere a partire dalla descrizione della “Grande Danza” tribale dei cheŵa: 

Ove ciò sia inteso in senso di maggiore aderenza naturale degli animali allo stato di natura, per quanto la cosa sembri tautologica, essa è senz’altro vera, e riporta alla concezione di Ambrogio, il quale non a caso contrappone alle “discussioni degli esseri ragionevoli” l’“istinto di quelli irragionevoli”: proprio perché privi di ragione (s’intende di ragione morale, non di qualsivoglia forma di intelligenza), gli animali sono ordinariamente conformi allo stato di natura, e dunque l’osservazione dei loro comportamenti – osservazione che soltanto gli uomini possono porre – è utile a lasciar emergere la grande armonia che definisce il mondo in quanto “cosmo” (cioè ordine). 

La natura degli uomini, invece, è culturale (la loro cultura, viceversa, è ad essi connaturale), e ciò fa sì che a differenza degli altri animali, degli altri viventi e del mondo, essi possano adeguarsi o divergere dallo stato di natura (da quello generale e dal proprio): ciò riprova collateralmente che solo gli uomini sono passibili di bontà, di malizia e di tutte le innumerevoli sfumature della vita morale. 

Insomma, c’è una differenza tra il versetto del salmo “tu mi doni la forza di un bufalo” e quello evangelico “siate prudenti come i serpenti e puri come le colombe”: nel primo caso l’autore sacro introietta in sé la qualità della forza che riconosce nell’animale; nel secondo caso egli (che nella fattispecie è Cristo stesso) introietta nell’animale le qualità di prudenza e purezza, che in quanto morali certamente non possono appartenere agli animali in sé, ma si addicono loro per l’analogia stabilita dagli uomini che li osservano. 

Dunque dove sta il punto dell’argomento di padre Sumani? Ci sembra che esso consti dell’affermazione per cui «il degrado ambientale si traduce in una perdita epistemologica». Quando Adamo chiama nel proprio così-costituito-mondo gli esseri che Dio aveva chiamato dal nulla all’esistenza, egli comincia appunto a rendere il mondo quel che esso è, cioè già-sempre-umano; mano a mano che la varietà del creato davanti agli occhi di Adamo diminuisse, diminuirebbero parimenti gli stimoli offerti al suo logos, il quale sta a quelle creature come la malta sta ai mattoni in ordine alla costruzione di un muro e di un edificio (il quale è appunto il mondo). 

Insomma, se disgraziatamente un giorno davvero scomparissero le api non sarebbe la loro scomparsa a trascinare nel nulla la virtù della laboriosità, ma gli uomini avrebbero un motivo in meno di stupirsi dell’ordine delle cose, di riconoscere un Disegno Intelligente e alla fine – bisogna ammetterlo – ne risulterebbe menomata anche la dolcezza del loro eloquio. Gli uomini stessi, insomma, risulterebbero menomati nella loro umanità, e poiché il logos (da cui provengono – in via non esclusiva – pensiero e linguaggio) è l’impronta di Dio nella creatura umana, alla fin fine un Adamo muto sarebbe così abissalmente solo che non saprebbe riconoscere neppure Eva. 

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