Primi arresti e prime ipotesi sul movente dell’attentato al vescovo eletto della diocesi di Rumbek in Sud Sudan, monsignor Christian Carlassare: è probabile che si tratti di una vendetta all'interno della Chiesa locale.
Il più giovane vescovo al mondo, missionario comboniano, è stato trasportato in ospedale a Nairobi, in Kenya, e si sta riprendendo dalle ferite da arma da fuoco inflittegli alle gambe da due uomini armati che lo hanno assalito nella notte del 25 aprile, in un agguato che ha contorni di una intimidazione.
Dodici persone sono state arrestate per l'attentato. «Tre di loro, tra cui spicca il nome del coordinatore diocesano di Rumbek John Mathiang, sono preti della Diocesi di Rumbek mentre gli altri sono laici con diverse responsabilità a livello della Chiesa locale», riferisce il portale dei missionari comboniani Nigrizia.
Nelle prime dichiarazioni rilasciate ai microfoni di "Eye Radio", un’emittente locale, il vescovo Carlassare ha detto di non nutrire rancore, ha pronunciato parole di perdono e ha chiesto preghiere per il Sud Sudan. «So che le persone stanno soffrendo più di me in questo momento per quello che è successo. Rumbek merita molto meglio di questo. Quindi perdono con tutto il cuore chiunque abbia fatto questa azione».
Ricordando l'attentato e l'incontro con gli assalitori, il vescovo ha detto: «Poi sono fuggiti. Non erano qui per rubare o uccidermi perché mi avrebbero ucciso facilmente».
Ma perché hanno colpito mons. Christian Carlassare? Gli attentatori, spiega un confratello del Vescovo che chiede di mantenere l’anonimato, «non hanno rubato nulla e ciò significa che lo scopo della visita non era la rapina. Crediamo volessero spaventarlo affinché se ne vada da Rumbek. Siamo convinti che vi siano gruppi che non vogliono un Vescovo straniero, ma un dinka, l’etnia maggioritaria nella zona» (Fides, 27 aprile).
L’ipotesi della vendetta contro la scelta di affidare la diocesi a monsignor Carlassarre è avvalorata da un fatto: il coordinatore diocesano di etnia dinka, poi arrestato, aveva diretto la Diocesi di Rumbek per nove anni dopo la morte (nel luglio del 2011) di Monsignor Cesare Mazzolari, missionario comboniano e vero “padre del popolo”.
Alcuni fedeli dinka si aspettavano quindi il passaggio di testimone ad uno della loro etnia per ereditare anche l’insieme di strutture e investimenti di rilievo, in una Diocesi dove ancora è molto evidente la presenza di personale apostolico venuto da fuori, rispetto ad una piccola decina di preti diocesani.
«Si tratta di un avvertimento chiaro e di un’intimidazione per padre Christian – dichiara a Nigrizia (27 aprile) - una fonte sicura che conosce bene le dinamiche sul posto e che proteggiamo con l’anonimato – dietro a questo agguato c’è un messaggio e un mandante, questo è chiarissimo! Il messaggio chiaro che hanno voluto trasmettergli è che qualcuno non lo vuole qui e che non deve essere consacrato vescovo il prossimo 23 maggio, giorno di Pentecoste».
Raggiunta al telefono dal portale Rebecca Tosi, volontaria, addetta al rifornimento dell’ospedale di Rumbek e originaria di Verona – che dormiva nel compound a pochi metri alla stanza del vescovo, racconta: «Questa mattina (26 aprile ndr), trenta minuti dopo mezzanotte, abbiamo sentito degli spari, siamo volati giù dal letto e abbiamo capito che erano indirizzati a padre Christian».
Nel frattempo, mentre la autorità locali non si sono espresse sull'attentato al vescovo, è uscita una nota della Conferenza episcopale dei vescovi del Sud Sudan che racconta nei dettagli l’accaduto. E invita la popolazione a pregare per la rapida guarigione del nuovo vescovo. Tra le righe, emerge un particolare: «Un sacerdote che ha la stanza accanto a Mons. Christian è uscito e ha chiesto agli uomini armati cosa volessero, ma ha ricevuto colpi di avvertimento per farsi da parte. I due hanno chiesto a padre Christian di uscire e, di fronte al suo rifiuto, gli hanno sparato a entrambe le gambe e sono fuggiti».
Quel sacerdote è padre Andrea Osman, della Diocesi di Rumbek che racconta alla radio cattolica Network Morning News Service, la dinamica dell'attentato contro mons. Carlassarre. «Ho sentito il vescovo gridare e, sentendo gli spari, ho provato a bussare alla mia porta dall’interno, in modo da spaventare le due persone armate, ma non sembravano per nulla intimoriti. Anzi, hanno preso di mira la stanza del vescovo, hanno bussato alla sua porta e hanno iniziato a sparare finché non l’hanno sfondata».
Così, conclude padre Osman, «gli hanno sparato alle gambe e sono fuggiti. Penso che gli abbiano sparato tre proiettili, due su una gamba e uno sull’altra. Quando mi hanno visto, mi hanno detto di andarmene. Uno di loro mi ha sparato due proiettili che sono finiti nella sedia dietro me».
Non solo l'attentato contro il giovane vescovo del Sud Sudan. In Africa, infatti, c'è anche un altro Stato dove il clima è sempre più pesante per i cristiani. Ed è la Nigeria. Un gruppo di banditi armati ha circondato il 26 aprile una chiesa battista dello stato di Kaduna, nel centro-nord della Nigeria. Sparando all’impazzata, i criminali hanno ucciso due fedeli durante la funzione e rapito almeno altri quattro cristiani. Alcuni cristiani sono rimasti feriti nelle sparatorie, mentre gli altri sono riusciti a fuggire.
Gli attacchi e i rapimenti a scopo di estorsione stanno diventando il vero incubo della Nigeria. Il 22 aprile, sempre nello stato di Kaduna, due infermiere sono state rapite di notte dall’ospedale Idon dopo un attacco da parte di banditi. Solo due giorni prima, il 20 aprile, un gruppo di criminali aveva assaltato l’Università Greenfield, istituto privato nello stato di Kaduna, uccidendo il custode e sequestrando decine di studenti. Circa 40 giovani sarebbero nelle mani dei rapitori, mentre tre sono stati ritrovati senza vita. Le bande armate che imperversano nel paese sono spesso alleate di Boko Haram o della fazione legata allo Stato Islamico, Iswap.
Solo nel 2020, in Nigeria, secondo l’ultimo rapporto di Open Doors sui cristiani perseguitati, sono stati assassinati in odium fidei il 60 per cento di tutti i cristiani uccisi nel mondo: 3.530 in tutto. Moltissime anche le persone rapite. Tra queste, resta anche Leah Sharibu, che si trova ormai da tre anni nelle mani di Boko Haram per essersi rifiutata di convertirsi all’islam (Tempi.it, 26 aprile).