Per settimane il caso di Daniela Molinari ha riempito le pagine dei giornali. L'appello struggente di questa donna che cercava la madre biologica ha catturato l'opinione pubblica. Dopo molti e ripetuti no da parte chi l'aveva messa al mondo, il 4 maggio è stato reso noto che finalmente la madre biologica di Daniela Molinari ha acconsentito al prelievo del sangue che potrà essere d'aiuto per la mappatura genetica e cura del tumore della figlia.
Ripercorriamo le tappe drammatiche di questa storia.
Daniela è un'infermiera psichiatrica milanese di 47 anni. Per mestiere cura gli altri, e forse non è un caso. La sua storia è quella di una donna che è ferita a morte nell'anima e nel corpo. Lo racconta sinteticamente lei:
Oggi Daniela è madre di due figlie di 23 e 9 anni. Le guarderà e vorrà loro bene con lo sguardo di chi ha nel suo passato più remoto una ferita non rimarginata. Si tende, quando possibile, a non recidere subito il cordone ombelicale quando nasce un bimbo. Si lasciano madre e figlio legati ancora per un po' dopo quel putiferio che è il travaglio. Nascere è un trauma fortissimo, ci resta impresso in una memoria profonda (anche se non lo ricordiamo in modo consapevole). Nascere è staccarsi sia per la madre sia per il neonato, ma quando possibile è fonte di conforto stare uniti grazie al cordone ombelicale ... ancora per un po'.
Il legame madre-figlio è fortissimo, nonostante certi deliri della scienza vogliano ridurre il concepimento a fabbricazione e la madre a qualcosa di simile a una mera generatrice biologica. Comunque il biologico si dimostrerà più forte, più cocciuto, più recidivo dei tentativi di scrivere una impossibile narrativa umana liberata dai cordoni ombelicali. E non ne troveremo prova più schiacciante di quella piantata nella tragedia di Daniela Molinari: una figlia abbandonata alla nascita che da adulta ha ricevuto per molte settimane un altro mortale no dalla madre.
A Chi l'ha visto Daniela Molinari ha condiviso un appello parlando direttamente alla sua madre biologica.
Prima parla della mamma in terza persona, poi spontaneamente passa al tu. La grammatica diventa un ulteriore specchio dell'evidenza che è impossibile trattare questo magma di vita senza infilarci dentro un legame. Daniela è stata abbandonata, non sa nulla di sua madre eppure non può non trattarla come un tu. Paradossalmente, l'anominato e la distanza sono l'estrema speranza per elemonisare da lei un briciolo di rapporto. Le chiede solo un prelievo del sangue, non c'è bisogno di incontrarsi, non c'è bisogno di esporsi pubblicamente. Un semplice esame del sangue della madre biologica basterebbe per poter procedere alla cura sperimentale da cui dipende la vita di Daniela Molinari.
La donna ha rifiutato, motivando la scelta con poche parole pronunciate al telefono: è troppo doloroso ricordare quel periodo della sua vita. Il 4 maggio la svolta. Si apprende che un medico e una psicologa, nella massima discrezione e nel rispetto della richiesta della madre naturale di restare anonima, hanno effettuato il prelievo che permetterà la mappatura genetica.
Per molte settimane Daniela ha dovuto fare i conti con questo rifiuto netto, imponderabile. A noi esterni, che incontriamo questa vicenda e la trattiamo stando piantati negli assi cartesiani della logica del "un gesto di bene che ti costa poco", sembra assurdo questo rifiuto della madre biologica di Daniela. Gli appelli da parte di quest'ultima si ripetono:
Ti chiedo di ripensarci. Rifiutando di sottoporti a un prelievo di sangue, condanni me e le mie figlie, una delle quali ha appena nove anni. Condanni una famiglia.
Fin qui la narrazione dei fatti è dolorosa fino al tragico ma raccontabile. La mente e il cuore - pur dilaniati - possono straziarsi di fronte alla storia di una figlia abbandonata due volte che continua a implorare aiuto a chi le ha dato la vita.
Impossibile eppure necessario è fare un salto di là, nella storia di una madre che è solo un volto al buio e ha sulle spalle l'abbandono di una figlia e ora quello di un no irrevocabile alla richiesta di aiutarla. Qui, su questo terreno scosceso e vessato da una tempesta brutta, mancano le coordinate per qualsiasi discorso accettabile. Eppure è proprio in quel buio che sta scritto che madre è una presenza viscerale inestirpabile e non sarà mai solo una parola plasmabile a nostro uso e consumo.
Ho letto la riflessione di Viola Ardone su La Stampa in merito a questa vicenda. E ne condivido la profonda intuizione di fondo: chi deve restare nel mondo dei vivi in questa storia?
Non occorre scomodare Freud per capire che il volto in totale ombra di questa madre non è quello di una donna che si punisce. La sua persona è per noi un'incognita su cui è facile incollare etichette cattive. Ma che ne sappiamo davvero? L'abisso di ogni anima è davvero un abisso, e di fronte a ogni persona noi siamo sempre sulla soglia di un mistero, di una battaglia invisibile, di una camera magmatica incandescente.
Madre è accoglienza, abbraccio, sacrificio, perdono, nutrimento, vita. Forse che questa donna in ombra - sprofondata nel buio dei suoi incubi - non lo senta? Non so. Ma c'è qualcosa che fa pensare che sia anche lei a voler morire, non dando alla figlia una speranza.
Oggi il consenso a fare il prelievo di sangue è arrivato, ed è un gesto di riconciliazione con un passato che fa male. Sappiamo bene che possiamo essere noi i primi a negarci la possibilità di riconciliarci.
Non è scontato concedere a se stessi la misericordia di un gesto di riconciliazione. Anche se i discorsi del mondo parlano spesso di "perdonare se stessi", la verità è che il perdono è sempre una parola che viene da fuori, ci deve - appunto - essere donato.
Se anche madre e figlia non si sono ancora incontrate, ci auguriamo che questo passo enorme di avvicinamento sia l'inizio di un legame, anche a distanza, per sanare il dolore profondo di entrambe.