E' morta venerdì scorso l'attrice Helen McCrory. Per molti è stata uno dei volti nella saga di Harry Potter (dove ha interpretato Narcissa Malfoy), per altri era la co-protagonista nel film The Queen e star della serie tv Peaky Blinders. Famosa sì, ma non così smaccatamente celebre come altre dive. Sotto i riflettori, ma con le luci un po' più soffuse.
E dietro la scena ha vissuto una sfida enorme: ha combattuto la sua dura battaglia con un cancro al fianco della sua famiglia. In questi giorni di lutto il marito Damien Lewis, anche lui attore e volto altrettanto noto, ha voluto aprire una finestra sul privato, su chi era sua moglie Helen. Non ha rilasciato interviste che celebrassero l'attrice, ma ha parlato dell'intimità in cui questo viaggio nella malattia, e poi nella morte, è stato affrontato da una famiglia tutta intera, due genitori e due figli.
Helen McCrory e Damien Lewis si sono sposati nel 2007, dal loro matrimonio sono nati una figlia e un figlio che oggi sono giovanissimi adolescenti. Il tutto nella cornice dell'Inghilterra e delle luci della ribalta. Helen rifiutò un ruolo importante in Harry Potter a causa di una delle due gravidanze. A causa? Cado nell'errore delle contrapposizioni.
L'impressione che dà questa famiglia, che ora si mostra nel momento del lutto, è quella di chi ha imboccato la via di un amabile anonimato. Il mestiere richiede red carpet, telecamere ed esposizione mediatica, ma la vita privata può benedettamente starne al di fuori. Vivono nel Suffolk e anche l'irrompere della malattia di lei non è stato esibito. Altre star come Shannen Doherty, decidono di mettersi a nudo e di condividere come un reality il proprio percorso di chemio, interventi, vita quotidiana stravolta dalla malattia.
E' una scelta personale, non è giusta o sbagliata in assoluto. Benvenuto sia l'uso dei social se è mosso dal desiderio di mostrare la vulnerabilità dietro l'inganno generale di un mondo in cui la malattia è temuta, e messa negli angoli dove si veda poco. Benvenuta anche la fuga dal clamore mediatico se l'urgenza è quella di stare dentro la vita, e al diavolo ogni esibizione.
Si sa che nei film sono gli imprevisti e gli shock a tenere alta l'adrenalina. Nella vita gli imprevisti sono botte belle grosse che squadernano ogni piano, ribaltano tutto e non c'è una battuta pronta. C'è un silenzio pesante. Come ultimo saluto pubblico alla moglie, Damian Lewis ha voluto condividere un'immagine di come è stata la loro vita familiare nel tempo della malattia di Helen:
Tante famiglie che conosco (e ognuno di noi conosce) vivono in presenza della morte. Quella parola taciuta e scacciata ha il dono di mettere a fuoco molte cose vive, e non solo di lasciare libero campo alla disperazione. Dopo aver letto le parole di Damien Lewis citate sopra mi sono fermata, non sono andata oltre nell'articolo.
Avevo bisogno di stare su quel "orfani, ma preparati alla vita". In astratto c'è tanta paura ad accogliere il pensiero della morte nelle nostre giornate, citarla anche solo di sfuggita sembra foriero di presagi funesti. E allora perché Socrate sosteneva che la vita deve essere un allenamento alla morte? Era una bella battuta e basta? Non so rispondere da erudita. Ma è vero che la vita diventa un allenamento quando non escludiamo dall'orizzonte il pensiero della nostra finitezza. Ci tempra, non ci schiaccia. Ci desta da un letargo fatto di pure illusioni.
Come si parla a dei bambini o a dei ragazzi del fatto che una madre sta per morire? Come li si accompagna? Si può essere orfani e preparati alla vita?
Ho l'impressione che l'adulto del XXI secolo sia molto più fragile del bambino all'idea di introdurre il discorso della morte. Più volte, coi figli ancora piccoli, mi sono spaventata nel rendermi conto troppo tardi di aver letto loro fiabe in cui qualcuno muore, magari soffrendo. Ma non ho mai registrato panico nei miei figli. Curiosità e domande belle dirette, sì. Ma non terrore. Che cosa suggerisce questa loro apertura a un mistero che, invece, noi adulti abbiamo il terrore di guardare, nominare, contemplare?
Sono tutte domande non retoriche, e di cui non conosco le risposte chiuse. Di certo quel senso del mistero che i più piccoli dimostrano di avere dovrebbe darci una spinta di fiducia a inoltrarci nel buio: parlare di dolore non è solo tragico, accompagnare una persona cara alla morte non è solo disperazione. "Preparati alla vita", lo ripeto perché mi commuove. Nel buio non c'è solo il buio. E' dura entrarci senza sapere cosa - poi - si metterà a fuoco. I bambini, però, sono disposti a stare al buio se qualcuno è con loro.
Può essere un'indicazione pura e semplice. Ci affaccendiamo a schivare - o sperare di schivare - il più a lungo possibile il problema di morire. Eppure lì dove c'è gente costretta a farci i conti abbiamo la testimonianza che non c'è solo negazione e oscurità, ma uno strano gusto di vita che sa di gratitudine.