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Il libro antidoto contro il fanatismo di un padre domenicano

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Emiliano Fumaneri - pubblicato il 01/04/21
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Contro le false credenze che conducono al fanatismo, Adrien Candiard fa appello alla fede che illumina la ragione.

«Buon venerdì e felice Pasqua, specialmente alla mia amata nazione cristiana». Questo augurio, postato nel 2016 su Facebook, è costato la vita a Asad Shah, 40 anni, pakistano di fede musulmana residente da anni a Glasgow, in Scozia, dove gestiva un piccolo negozio. Poche ore dopo Asad è stato accoltellato a morte da un altro musulmano che aveva giudicato insopportabile che si potesse augurare buona Pasqua ai cristiani.

Con questo macabro episodio si apre l’ultimo libro di Adrien Candiard, giovane frate domenicano e brillante islamologo. Si intitola Fanatismo. Quando la religione è senza Dio (Emi, 2021).

L’autore, che vive al Cairo ed è membro dell’Istituto domenicano di studi orientali, si occupa dell’islam e ha già scritto diversi testi, alcuni dei quali tradotti anche in italiano (come Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, Emi, 2019) – lingua che peraltro conosce molto bene come testimonia la sua intervista con Monica Mondo di Tv2000.

In questo libretto di una novantina di pagine affronta una malattia che oggi appare strettamente collegata all’islam: il fanatismo.

Ma di che malattia si tratta? Una malattia della psiche? della società? Qui c’è una premessa da fare: padre Candiard non intende affatto rigettare o minimizzare gli approcci ordinariamente impiegati per spiegare il fanatismo religioso (in genere quelli psicologici e sociologici). Vuole piuttosto integrarli con un approccio teologico. È consapevole che la tendenza attuale, in Francia e non solo, spira in direzione opposta: la teologia è esclusa a priori da ogni discorso sul fanatismo perché considerata espressione di “dogmatismo”. Ma questo è un errore, sostiene il frate domenicano, perché la teologia – ossia la ragione applicata alla fede – è invece uno strumento prezioso che serve a purificare progressivamente le false immagini di Dio generate dalla fantasia umana. Tanto che a suo dire è «proprio questa esclusione della teologia, cioè di un discorso ragionato e critico sulla fede e su Dio, a favorire il fanatismo».

Già, perché il fanatico non è sempre un pazzo che sragiona, come credeva Voltaire. Al contrario, si può diventare fanatici al termine di un discorso ragionato, perfettamente logico, dotato di una sua ferrea coerenza interna.

E quando il fanatismo si appella a una fede religiosa, questo è precisamente il campo della teologia. L’uccisione del povero Asad Shah, ad esempio, si spiega con la teologia di Ibn Tayamiyya, giurista e teologo musulmano del XIV secolo che ha riscosso un grande successo nei movimenti salafiti e jihadisti a partire dall’assassinio del presidente egiziano Sadat nel 1981 fino alle strategie dell’Isis.

Le basi di questa teologia sono da rintracciare in una fatwa (cioè un parere giuridico) di Ibn Tayamiyya, chiamato a rispondere sul seguente punto: che bisogna pensare di quei musulmani che partecipano assieme ai cristiani ai festeggiamenti della Pasqua? Si badi bene che non si tratta di momenti di preghiera condivisa o di partecipazione agli stessi riti, ma di semplici scambi di doni (di uova colorate, come accade ancora oggi in alcuni paesi) o di pranzi in comune.

Insomma, siamo più nel campo delle relazioni di buon vicinato. Ma la risposta di Ibn Tayamiyya è senza appello: i musulmani che si prestano a simili cose devono essere richiamati all’ordine e se perseverano meritano la morte.

A secoli di distanza il risultato è sempre lo stesso, la stessa causa produce lo stesso effetto: del sangue che scorre, come ha scoperto a sue spese il povero negoziante pakistano trapiantato in terra di Scozia.

La conclusione di Ibn Tayamiyya – la condanna a morte – è un’opinione giuridica. Ma si fonda su una teologia, nel caso specifico sulla teologia della scuola hanbalita alla quale Ibn Tayamiyya appartiene.

Questa scuola, che porta il nome del suo fondatore, l’imam iracheno Ibn Hanbal (IX secolo), mette al centro l’assoluta trascendenza di Dio. «Niente è simile a lui», proclama il Corano (42, 11). Dio è radicalmente differente dal mondo creato e sarebbe inconoscibile all’uomo se non si fosse premurato di rivelarci qualcosa di sé attraverso il Corano. Ma attenzione: ciò che ha rivelato non è la sua natura, ma la sua volontà. Non sappiamo chi sia Dio, ma sappiamo ciò che vuole.

A giusto titolo potremmo qualificare questa teologia come un «agosticismo devoto», osserva padre Candiard. Certo, è un agnosticismo ben diverso da quello a cui pensiamo abitualmente. Ma la formula non è affatto sbagliata, dato che identifica una teologia che in fin dei conti pensa la propria inutilità, la propria impossibilità: la sostanziale inadeguatezza del linguaggio umano (e dunque del logos, dell’intelligenza) davanti a ogni discorso su Dio.

Per chi professa un simile agnosticismo devoto, «aver fede» non ha affatto lo stesso senso che può avere questa espressione in un Occidente che, ancorché secolarizzato, è stato plasmato da secoli di cristianesimo. Per un cristiano vale la distinzione di S. Paolo tra la fede e le opere: la fede è una relazione intima e personale con Dio, una relazione d’amore e di fiducia; le opere sono la conseguenza di questa relazione e dunque in un certo senso sono secondarie: le opere sono una derivazione dell’amore.

Per un hanbalita, al contrario, questa distinzione non ha alcun senso. Per un agnostico devoto, infatti, aver fede non può voler dire avere una relazione personale con Dio, dato che è un Dio distante, inaccessibile, inconoscibile. Aver fede può solo voler dire, molto semplicemente, fare ciò che Dio ci domanda di fare. Più precisamente, amare Dio è fare la sua volontà come è stata espressa nella sua rivelazione. Qui a primeggiare sono le opere. «Non è questione d’interiorità, ma di azione», commenta padre Adrien, che conclude: «Questo agnosticismo devoto sulla natura di Dio si accompagna dunque a un amore zelante per la sua Legge».

I nodi così arrivano al pettine, come si suol dire. Per questa scuola teologica fare significa essere: se di Dio conosciamo la volontà e non la natura, allora essere musulmano vuol dire agire come un musulmano, vuol dire fare ciò che un musulmano è tenuto a fare. Parallelamente, essere cristiano vuol dire agire da cristiano. Di conseguenza, fare ciò che fanno i cristiani (anche seguendo pratiche del tutto secondarie come lo scambio di uova colorate in occasione di una festa cristiana) vuol dire essere cristiani. Per un musulmano ciò significa cessare di essere musulmano. Significa apostasia. E l’apostasia, secondo la tradizione giuridica classica dell’islam, merita la morte.

La logica, come si vede, è ferrea. Ed è indipendente da ogni convinzione interiore, che Ibn Tayamiyya non discute mai perché questa è irrilevante per la teologia particolare della sua scuola di riferimento.

E così dall’affermazione intransigente della trascendenza divina nel XIV secolo si arriva all’omicidio di un negoziante di Glasgow nel XXI secolo. Il legame con la violenza è evidente. Va anche detto che la teologia dei seguaci di Ibn Hanbal non rappresenta, tiene a sottolineare il frate islamologo, l’islam nella sua interezza ma solo una corrente interna al mondo islamico. Relativamente marginale nel medioevo, essa ha ripreso vigore da circa un secolo grazie all’ascesa del salafismo. La crisi dell’islam sunnita, che ha nel terrorismo una delle sue manifestazioni più eclatanti, dipende in misura sempre più ampia, e in larga parte inconsapevole, da questa «teologia del rifiuto della teologia». Una teologia «dalla quale Dio è assente, salvo che sotto forma di comandamento».

Così padre Candiard proietta una luce nuova sul fenomeno del fanatismo religioso (non solo quello islamico). Il fanatismo non è solo il prodotto di traumi psicologici o dell’emarginazione sociale: è anche il frutto, talvolta piuttosto diretto, di certe teologie, di certe immagini di Dio.

Ma come individuare queste teologie a rischio di degenerazione? Per il domenicano «le teologie che conducono al fanatismo, o che lo favoriscono, sono molto differenti tra loro, e i loro frutti non sempre si assomigliano. Tuttavia hanno qualcosa in comune, che sospetto essere la radice stessa del fanatismo: sono teologie che hanno messo Dio al margine».

In forza di un altro vecchio retaggio volterriano siamo inclini a pensare che il fanatico sia qualcuno che dà troppo spazio a Dio, che ci crede troppo. Ma Candiard ci dice che le cose stanno giusto all’opposto: «il fanatismo è una messa al bando di Dio, quasi un ateismo, un ateismo da religiosi – un ateismo che non cessa di parlare di Dio, ma che in realtà sa molto bene come farne a meno».

Il fanatismo non nasce da un eccesso, ma dalla mancanza di Dio. Qui sta il limite di tutti gli approcci nei limiti della sola ragione. Il razionalista è convinto che l’antidoto al fanatismo stia nella «moderazione». Il guaio è che è una moderazione intesa non come virtù del «giusto mezzo», ma come vizio: come accidia, come tiepidezza, come mancanza di convinzione. È qui che il razionalista s’inganna, insiste padre Adrien, «perché il fanatismo non è la conseguenza di una presenza eccessiva di Dio, ma al contrario è il segno della sua assenza».

Presto o tardi, infatti, il vuoto viene riempito da qualche altra cosa che pur senza essere Dio ne occupa il posto e ne rivendica gli attributi: è ciò che la Bibbia chiama un idolo. L’idolo è una falsa immagine (è questo il significato del greco eídōlon) che assomiglia a Dio come la smorfia assomiglia al sorriso…

Sotto la maschera del fanatismo si intravede dunque il profilo di una grave malattia spirituale: l’idolatria. Il cuore dell’uomo non è fatto per sopportare a lungo l’assenza di Dio. Giocoforza cercherà di compensare questo vuoto con qualcosa che assomiglia a Dio al punto da poter essere confuso con Dio.

La varietà degli idoli è pressoché infinita (sono legione…). È lunga infatti la lista dei candidati a recitare la parte di Dio: i comandamenti, la Bibbia, la liturgia, i santi, la religione. Tutte cose buone e vere, ma che non sono Dio quanto mezzi per arrivare a Lui. Per tutti vale l’ammonimento di Pascal: «Ci si può fare un idolo persino della verità, perché la verità, scissa dalla carità, non è Dio: ne è soltanto l’immagine, un idolo che non dobbiamo né amare né adorare».

Questo per restare sul versante religioso. Ma si sbaglierebbe a pensare che solo in una religione (o in tutte le religioni) possa attecchire il virus del fanatismo. Anche il versante “laico” offre terreno fertile agli idoli (e dunque al fanatismo). Dopo il secolo delle idee assassine non possiamo farci grandi illusioni. Quand’è che le ideologie profane hanno fatto stragi inenarrabili se non quando hanno voluto liberarsi di Dio? Ci vuol poco a stilare tutta una lista di idoli secolari: il progresso, la storia, la classe, la razza, il pianeta…

Pur nella varietà delle sue manifestazioni, ogni idolatria produce sempre una triplice forma di chiusura: chiusura all’amore (la sclerocardia o durezza di cuore); chiusura alla libertà (gli idoli non producono mai libertà interiore, creano solo ossessioni, paure, falsi scrupoli, manie); chiusura alla realtà (il fanatismo produce universi autoreferenziali che fanno il vuoto attorno a sé; danno impressione di perfezione ma è il sortilegio farisaico di una purezza che dà la morte anziché donare la vita).

Come guarire da questa malattia dello spirito? Il domenicano non vede altro rimedio che lo sviluppo di una autentica vita spirituale. C’è da dubitare infatti che una società agnostica come la nostra possa produrre in autonomia dei rimedi adeguati. Per questo padre Candiard propone rimedi sperimentati personalmente: oltre allo studio della teologia (la ragione come purificazione della fede), sono indispensabili il dialogo interreligioso (la relazione fraterna col prossimo) e infine, last but not least, la preghiera (la relazione con Dio, fonte dell’amore). In breve, occorre accrescere in noi la carità, unico vero antidoto alla dominazione degli idoli.




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