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Ucciso di Giovedì Santo: tutta la verità sull’omicidio di San Simonino

A Trento nel 475 ci fu l'omicidio del piccolo Simonino. Ne furono accusati gli ebrei.

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 31/03/21
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La Chiesa ha abolito nel 1965 il culto del santo fanciullo, vittima di un infanticidio a Trento. Ma perchè questa decisione?

Un omicidio di Giovedì Santo, un culto prima osannato e poi abolito: stiamo parlando del misterioso infanticidio di San Simonino, fanciullo morto a Trento durante la Pasqua del 1475. La Chiesa cattolica lo ha venerato sino al 28 ottobre 1965. 

Di quell’omicidio fu accusato un gruppo di ebrei che viveva in città. “Omicidio rituale”, per la precisione, il capo di accusa contro di loro. Gli ebrei furono perseguitati e torturati. Ma nel tempo è avvenuto un fatto clamoroso. Cioè la smentita di questa ricostruzione dei fatti. E così San Simonino è tornato ad essere un fanciullo privo di un’aurea di santità.

Il portale del Museo Diocesano Tridentino racconta la storia di San Simonino e del suo omicidio. La sera del 23 marzo 1475 – Giovedì Santo – Andrea, un conciapelli che abitava a Trento nella contrada del Fossato, cercò inutilmente il suo bambino, Simone, dell’età di 28 mesi. Il mattino dopo ne denunciò la scomparsa al principe vescovo, il quale fece emanare un bando per invitare chiunque avesse notizie a presentarsi. 

A fine giornata il padre riferì di aver sentito dire da molti che il bambino era stato rapito dagli ebrei. L’antica diffidenza si sommava all’emozione che era stata suscitata, nelle settimane precedenti, dalla predicazione contro l’usura, condotta dai frati francescani, che aveva fra i propri bersagli proprio gli ebrei. Le abitazioni di questi ultimi furono inutilmente perquisite.

San Simonino

La sera della domenica di Pasqua, 26 marzo 475, Samuele da Norimberga, esponente più in vista del piccolo gruppo israelita (in tutto una trentina di persone), denunciò che il corpo del bambino era stato ritrovato nella roggia che dalla contrada del Fossato proseguiva passando sotto la sua abitazione, posta nell’attuale vicolo dell’Adige. Il podestà decise di far incarcerare subito otto ebrei (altri dieci il giorno successivo) per l'omicidio del Giovedì Santo.  

I due medici chiamati il 27 marzo ad esaminare il corpo di Simonino furono concordi nel dire che la morte era avvenuta il giorno precedente, e non per annegamento. Ma interpretarono diversamente le lesioni che il cadavere mostrava. Uno rimase perplesso, l’altro fu certo che si trattava di ferite volontariamente inferte. La gente venne a vedere il piccolo corpo, deposto nella vicina chiesa di San Pietro, e si diffuse la voce di miracoli, la cui esistenza avvalorava la tesi del martirio.

Tutto ciò fu considerato sufficiente per avviare un processo inquisitorio per l'omicidio del futuro San Simonino. Gli accusati in un primo momento sostennero la propria innocenza. Ma dato che "non volevano dire la verità", furono sottoposti a tortura. 

Uno alla volta si arresero e uniformarono le proprie risposte a quanto veniva richiesto dal podestà ("che devo dire?", mormorò sfinito Vitale, che fu tra gli ultimi a cedere, il 13 aprile). Tra il 9 e il 15 aprile la tortura permise anche la definizione di un movente: l’odio contro i cristiani.

Nacquero a quel punto dei dubbi anche all’interno della città. Vi fu chi si mosse presso la corte tirolese e, per ordine del conte del Tirolo Sigismondo d’Asburgo, il 21 aprile il processo fu sospeso. Il principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach, convinto sostenitore della colpevolezza degli accusati, se ne lamentò. Il 30 aprile deprecò gli ostacoli frapposti da "falsi cristiani". 

Un’intensa attività propagandistica (anche attraverso la stampa, per la prima volta usata a questo scopo) accreditava con scritti e immagini la versione dei fatti descritta dal tribunale trentino e diffondeva la fama del nuovo 'martire'.

Il 5 giugno 1475 riprese il processo, che giunse rapidamente a conclusione con il rogo, tra il 21 e il 23 giugno, di numerosi ebrei. 

Il 30 giugno 1475 il vescovo di Trento inviò a papa Sisto IV una relazione sugli avvenimenti e chiese la canonizzazione del ‘Simonino’. Il papa inviò il frate domenicano Battista de Giudici a valutare la situazione. Questi giunse a Trento all’inizio di settembre: si convinse che le accuse alla comunità ebraica erano inverosimili e che le confessioni erano state estorte con la tortura. 

Il 10 ottobre Sisto IV scrisse conseguentemente a tutti i principi d’Italia proibendo di predicare la santità del Simonino e di chiamarlo 'beato'.

Hinderbach iniziò allora una campagna volta a screditare il commissario apostolico e a sostenere la validità dell’operato del tribunale trentino, ed ebbe infine partita vinta. Il commissario papale fu allontanato. 

Ripresero così i processi sull'omicidio di San Simonino (3 novembre 1475), questa volta contro le donne. alcune morirono in carcere. Altre accettarono infine il battesimo per salvarsi (gennaio 1477). Il vescovo non riuscì a far riconoscere il culto del ‘martire’, ma ottenne da Roma la conferma che il processo si era svolto in modo formalmente corretto (20 giugno 1478).

Nonostante dubbi e riserve, la fama del Simonino si diffuse velocemente, provocando purtroppo episodi imitativi (altre comunità ebraiche furono accusate di omicidio rituale) e si tradusse in una ampia produzione iconografica (stampe e affreschi). 

Si fissò così un nuovo standard dei pregiudizi antiebraici, che passarono dal piano teologico e giuridico-economico (la lotta contro l’usura) a quello sociale e dell’ordine pubblico. Gli ebrei non erano più visti come infedeli o ladri, ma erano considerati pericolosi, specialmente per i bambini. Nel 1584 l’elogio del Simonino fu inserito nel Martirologio Romano e nel 1588 il culto fu autorizzato da papa Sisto V.

Il culto a Trento fu molto sentito fino alla metà del 1900, quando si fecero sempre più incalzanti le pressioni per una revisione storica dei fatti.  

Nel 1961 Gemma Volli, impegnata nello studio delle vicende storiche delle comunità ebraiche in Italia. E intenzionata a far sì che il caso del Simonino non fosse più posto a fondamento di pregiudizi antiebraici, venne a Trento a incontrare Iginio Rogger, docente di storia della Chiesa nel seminario diocesano. 

Rogger si rese conto che la questione andava presa in seria considerazione. Erano gli anni in cui la Chiesa cattolica avviava un’ampia riflessione sui suoi rapporti con il mondo moderno e, all’interno di questa, una rilettura delle relazioni tra cristianesimo ed ebraismo. 

Nel 1963 Rogger poté dunque presentare il caso al nuovo vescovo Alessandro Maria Gottardi. Fu commissionata una perizia al domenicano tedesco Willehad Eckert, che vi lavorò nel corso del 1964; nel novembre di quell’anno Eckert inviò il testo, che fu poi tradotto e pubblicato. 

Egli discusse la procedura adottata nel processo (“la tortura riuscì a strappare le confessioni desiderate”) e la gravità dei pregiudizi che lo avevano condizionato; ricordò i dubbi dei contemporanei. Espresse infine un giudizio “alla luce della storia”. 

“Le confessioni cominciano a diventare problematiche e false solo quando lo schema d’accusa precostituito ne diventa la falsariga. Nonostante questo schema, che doveva venire sorretto dalle confessioni estorte con la tortura, rimane una serie di contraddizioni interne che mostrano come il processo di Trento abbia portato a un assassinio giudiziario”.

Lo studio di Eckert fu sottoposto alla Congregazione dei Riti, che il 4 maggio 1965 chiarì come le approvazioni del culto del 1584 e del 1588 non potessero essere considerate equivalenti a una canonizzazione. E invitò ad applicare il canone del Codice di diritto canonico secondo cui “i vescovi devono rimuovere prudentemente dal culto dei fedeli le reliquie delle quali non è riconosciuta l’autenticità”. 

Il culto fu dunque ufficialmente abrogato il 28 novembre 1965, giorno della promulgazione del decreto del Concilio Vaticano II "Nostra Aetate" sui rapporti con l’ebraismo e le religioni non cristiane.

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