Her è un film del 2013, ma abbiamo avuto occasione di guardarlo solo qualche giorno fa.
È un film originale, stimolante e davvero bello, non a caso ha vinto una statuetta agli Oscar come miglior sceneggiatura, insomma, consigliatissimo per una serata di cinema impegnato.
Come abbiamo già fatto per Jojo Rabbit (qui), anche per questo film vorremmo proporre una lettura attraverso le lenti della teologia del corpo, ovvero cercando in esso i “semi del Verbo”, quelle piccole tracce di verità che si possono cogliere anche al di là di quello che è l’intento consapevole del regista e dello sceneggiatore.
E bisogna proprio ammettere che, da questo punto di vista, Her è una miniera di spunti sul senso del nostro essere umani e sulla sete di amore scritta nelle profondità del nostro cuore.
Ma veniamo per un attimo alla trama del film, ambientato in un futuro, in realtà, non così distante da noi.
Protagonista è Theodore, un uomo che si è separato da meno di un anno dalla moglie e che di mestiere scrive lettere d’amore su commissione.
La sua vita è piuttosto malinconica e solitaria, tra lavoro, videogames e una coppia di amici, Amy e Charles, che nel corso del film arriverà anch’essa a separarsi.
Ad un certo punto, Theodore decide di acquistare un nuovo sistema operativo, basato su un’intelligenza artificiale in grado di evolvere e di adattarsi sempre più profondamente alle esigenze dell’utente.
Questo sistema operativo si esprime attraverso una voce femminile (una specie di Alexa super-evoluta, che però si chiama Samantha) e attraverso i suoi algoritmi, riesce ad entrare in una crescente empatia con Theodore, costruendo una relazione dialogica sempre più raffinata e intensa fino al punto in cui il protagonista sentendosi così intimamente conosciuto e capito finisce per innamorarsene ed essere addirittura ricambiato.
Samantha però, come ogni sistema operativo che si rispetti, non ha un corpo umano, e questo è il primo elemento che vogliamo sottolineare. Emerge molto nitidamente quale sia il profondo valore del nostro corpo che, se da un lato, è vero, ci limita, invecchia e alla fine muore (come osserverà ad un certo punto anche la stessa Samantha), dall’altro, però, è anche ciò che lei stessa invidia e vorrebbe avere per poter abbracciare ed essere abbracciata, baciare ed essere baciata e poter fare l’amore.
Soltanto il corpo umano possiede quello che Giovanni Paolo II definisce “l’attributo sponsale”, ovvero la capacità di esprimere l’amore, di amare e di essere amati.
Tale difficoltà oggettiva nel vivere l’amore con Theodore, porterà Samantha a fargli una proposta per certi versi drammatica: chiederà infatti ad una ragazza di nome Isabel, che in maniera volontaria (nonché inquietante) si mette a servizio dell’amore tra umani e sistemi operativi, di “prestarle” il corpo.
Isabel così si presenta a casa di Theodore, ma sarà Samantha a dirle cosa fare, e sarà Samantha a parlare per lei, così da simulare di avere un corpo. Ma fin da subito Theodore avverte un profondo disagio e quando Samantha gli chiede di dirle che la ama, egli, di fronte al volto di questa sconosciuta, non ce la fa, e interrompe bruscamente anche il momento di passione che stava per avviarsi.
Il corpo umano non è sostituibile perché non è banalmente qualcosa, ma qualcuno: il corpo, il volto, rivela la persona, ed è per questo che Giovanni Paolo II definisce il corpo come “sacramento della persona”.
Ritroviamo qui un aspetto fondamentale della teologia del corpo: siamo persone, esistiamo in una unità inscindibile di corpo ed anima, due dimensioni inseparabili: il mio corpo esprime chi sono, non è un contenitore anonimo ed interscambiabile, io sono il mio corpo.
La vicenda di Theodore nel suo complesso sembra per certi versi riproporre il quesito iniziale delle catechesi di Giovanni Paolo II, ovvero quella domanda posta dai farisei a Gesù circa il divorzio:
Domanda che nasconde una profonda sete di senso e significato sull’amore: “perché l’amore sembra non mantenere ciò che promette?”
Questo interrogativo lo ritroviamo in filigrana lungo tutto il film, dove entrambe le coppie presenti si separano, pur riconoscendo e ricercando la bellezza dell’amore e del condividere la vita con qualcuno. “Perché accade questo?” sembrano domandarsi Theodore e la sua amica Amy.
Giovanni Paolo II ci offre la risposta a questi interrogativi proprio a partire dalle parole di Cristo: «in principio non fu così».
Prima del peccato originale non era così, era facile amare e lasciarsi amare, ma il peccato originale ha deturpato il disegno del Creatore, ha frammentato e confuso ogni cosa e ci ha reso irriconoscibile il vero fine dell’eros e della sessualità.
A questo proposito, all’inizio del film incontriamo una scena emblematica: Theodore è a letto e non riesce a dormire, ripensa con nostalgia ai momenti belli vissuti con sua moglie, donna a cui è ancora profondamente legato.
Il suo cuore insomma, in quel momento, desidera l’amore. Eppure, questo desiderio profondo del cuore inscritto nella nostra sessualità e capace di portarci fino al Cielo, Theodore cerca di colmarlo chiamando una chat erotica. Inutile dire che ne rimarrà amaramente deluso.
È proprio questa la profonda ferita che il peccato ci ha inferto: ci ha confusi sul significato del nostro corpo e della sessualità e il più delle volte crediamo di poter “fare centro” soltanto dando sfogo ai nostri impulsi o accontentandoci di un piacere momentaneo, mentre il vero fine della sessualità è di condurci all’amore.
Nel film ritroviamo molte diverse sfumature di questa ferita: c’è l’ammissione di Theodore di essersi nascosto nel rapporto con la moglie, c’è la paura di aprirsi e di soffrire, c’è la fatica di accettare la sfida di una relazione tra persone libere, con tutte le difficoltà e le sofferenze che l’amore comporta, preferendo di fatto l’illusione di una voce artificiale a propria immagine e somiglianza (Samantha), ma c’è anche la pretesa di controllare l’altro e la fatica di accogliersi nelle reciproche differenze, come mostrano gli amici Amy e Charles.
Come esseri umani sperimentiamo proprio questo dramma: da un lato desideriamo l’amore, ma dall’altro ci troviamo incapaci di vivere all’altezza dei desideri del nostro cuore. Siamo quindi condannati al fallimento, all’infelicità, alla frustrazione?
Assolutamente no, Cristo si è fatto uomo proprio per guarire questa ferita. Cristo è venuto per liberare il nostro cuore dalle sue prigioni, per convertirlo un po’ alla volta da cuore di pietra, incapace di amare e lasciarsi amare, a cuore di carne, che non si difende più, ma si lascia amare così da poter amare a sua volta.
Cristo, con la sua Pasqua, ci ha rivelato proprio come misteriosamente amore e sofferenza abitino gli stessi luoghi, come amare significhi un po’ morire, ma anche come ad ogni morte per amore segua sempre un trionfo della vita.
L’ultima scena del film è emblematica: uomo e donna (Theodore e la sua amica Amy) che, dopo aver sperimentato il fallimento, la morte delle loro relazioni, stanno seduti sul tetto di un grattacielo e, alle prime luci dell’alba, attendono il sole che sorge. Questo in fondo è ciò che ci insegna la nostra fede: solo l’uomo e la donna redenti da Cristo (sole che sorge dall’alto) possono amare, solo Cristo può svelarci di nuovo il vero significato del corpo e della sessualità.
Del resto, tutto questo è già scritto dentro di noi, abbiamo solo bisogno della luce di Cristo per poterlo rileggere nella verità.
Forse allora anche i nomi dei protagonisti non sono scelti a caso: Theodore (che significa “dono di Dio”) ed Amy (che significa “amata”). Siamo amati da sempre, siamo un dono e siamo fatti per il dono, questa è la nostra verità e questo il nostro destino, scritto da sempre nel nostro corpo e nella nostra sessualità.