Nei giorni della Settimana Santa, della Passione di Cristo le lettere da Westerbork di Etty Hillesum sono un bollettino di speranza contro atrocità e paura. La filosofa ebrea, convertita al cristianesimo, racconta la sua personale "Passione" dal campo di concentramento che la ospitava insieme alla famiglia.
Le sue lettere sono argomentate con le riflessioni di Fratel Michael Davide Semeraro, autore del libro “Dio matura - In Quaresima con Etty Hillesum” (edizioni San Paolo).
Etty Hillesum nei giorni più tristi non abbandona mai la speranza. Tiene duro, come dice lei, «da una parte e dall’altra del filo spinato. Tutto è assai difficile, eppure non impossibile: Quando mi sveglio alla mattina mi sento come dentro un bozzolo – è un ricco risveglio sai! Ma poi comincia a volte una piccola Passione».
Così commenta in una lettera all’amica Maria Tuinzing: “Sai, se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi alle apparenze come contingenze pittoresche che non intaccano il grande splendore (non mi viene in mente un’altra parola) che può essere una parte inalienabile della tua anima – allora è proprio una situazione disperata”.
Ma come riuscire ad avere accesso e a dimorare stabilmente in questa parte inalienabile della propria anima fino a essere capaci di sfidare la morte come il Signore Gesù?
Un primo passo è proprio quello di non dare troppa importanza alla propria vita come numero di giorni, atti compiuti e segni lasciati.
La “Passione” di Ettyy Hillesum guarda all’amore. E come per e nell’amore, c’è bisogno di pazienza, sono necessarie tante e varie tappe per arrivare a questo scivolare dolcemente nella e attraverso la vita.
Libera e leggera come una nave le cui vele sono gonfie di libertà... di Dio: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2Cor 3,17).
D’altro canto il Signore Gesù, in modo particolare nella Passione, riesce a parlare della gioia in un contesto di morte e di opposizione violenta alla sua persona. “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56).
Probabilmente, conclude Etty, «questa serenità, questa pace interiore mi vengono dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non si inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte».
Per Etty si fa sempre più chiaro e, in certo modo, sempre più imperativo il bisogno di maturare in una fedeltà al mistero della vita e di Dio capace di andare oltre ogni condizionamento e ogni paura.
E’ un bagliore di luce che accade in un freddo e buio campo di internati. E che la donna ebrea riesce a cogliere.