separateurCreated with Sketch.

La Crocifissione Bianca, il quadro preferito da Papa Francesco

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Alberto Barranco di Valdivieso - pubblicato il 27/03/21
whatsappfacebooktwitter-xemailnative
La vicenda appassionante di Chagall, della sua rivoluzionaria crocifissione e di un osservatore straordinario: il Santo Padre

Nella storia dell’Arte vi sono opere che, per motivi qualitativi, soprattutto in virtù di un perfetto equilibrio tra composizione estetica e chiarezza di intenti dell’autore, diventano oggetti iconici la cui densità di contenuto narrativo è tale da non perdere, nel tempo, la tensione comunicativa originaria. Questo è il caso della “Crocifissione Bianca” di Marc Chagall. Questa tela viene considerata, come la sua contemporanea “Guernica” di Pablo Picasso del 1937, un capolavoro assoluto di pittura, una narrazione sintetica di forme e simboli che denuncia, con efficacia ed originalità straordinarie, i vulnus che affliggono l’umanità. Nel caso specifico si parla di Shoah, di persecuzione del popolo ebraico, eppure i tragici avvenimenti delle violenze sono declinati attraverso una rappresentazione poetica, “danzante”, che permette a Chagall di raccontare, in modo universale, un male più grande, che coinvolge tutti. Il grande interesse dei media per la “Crocifissione Bianca” di Chagall, senz’altro già famosa e ammirata dagli appassionati d’arte di tutto il mondo, è scaturito dall’entusiasmo che il Papa ha sempre espresso nei confronti dell’opera. Infatti ne ha sottolineato la rilevanza fin dal 2010, ben prima di essere eletto Pontefice e successivamente confermando, come Papa Francesco, l’importanza simbolica di questa pittura, soprattutto nell’ottica di un’opera di evangelizzazione ispirata all’unità delle culture religiose ed alla difesa della dignità di tutti gli uomini. Il quadro, conservato nella città di Chicago, nel settembre del 2015 è stato prestato per la mostra “Bellezza Divina” al museo di Palazzo Strozzi a Firenze, in quell’occasione il Pontefice ha potuto ammirarla eccezionalmente il 10 novembre, nell’allestimento posto all’interno del Battistero di San Giovanni, aperto dal 9 Novembre. Non sembra una casualità che siano state scelte proprio le date della terribile Notte dei Cristalli per questo avvenimento, e tale è l’apprezzamento del Pontefice verso questa composizione che, successivamente, il Vaticano ne ha commissionata una copia perfetta, proprio in occasione dell’ottantatreesimo compleanno del Papa. 

Il cardinale Giuseppe Betori mostra a Papa Francesco la Crocifissione Bianca di Marc Chagall nel Battistero di Firenze, 10 ottobre 2015

Il pittore Marc Chagall (Vitebsk, 7 luglio 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 28 marzo 1985) è stato un caposcuola difficilmente inquadrabile in un movimento anche se ha fatto del simbolismo onirico la sua cifra più autentica. Autore prolifico, sospeso tra la realtà e la fantasia delle sue figure neo-primitive ha assunto solo nell’apparenza proporzioni infantili e soavi. Nasce in Bielorussia, o “Russia Bianca”, con il nome di Moshe Shagal, da una famiglia ebraica chassidica di piccoli mercanti, a Vitebsk, all’epoca una piccola e prospera cittadina, il cui circondario subiva le scorrerie dei Cosacchi che, fin dal 1881, minacciavano la popolazione ebraica distruggendo sinagoghe, villaggi (gli Shetl) e depredando le famiglie yddish. Ricordiamo che, in quegli anni, era in atto una vera pulizia etnica ordinata dal governo dello Zar Alessandro III che prevedeva lo sterminio sistematico di un terzo dei Giudei, e che continuerà anche sotto la feroce dittatura di Stalin. Chagall ripeterà spesso la frase: “Non volevo vivere. Ero nato già morto” (Marc Chagall, La mia vita, SE, 2012), questa frase ha due significati: per il fatto che alla nascita avessero dovuto rinvenire il suo piccolo corpo, pungendolo con aghi e gettandolo sotto l’acqua fredda, ma anche nel senso di sentire impresso su di sè, fin da bambino, il destino della persecuzione. Infatti, proprio in quel giorno, avevano salvato la madre, nel pieno delle doglie, da un incendio doloso, trascinandola all’esterno su un materasso. Nessuno potrà mai sapere quanto ciò sia verità o frutto di fantasia perché, nelle sue memorie, il mito e la realtà si fondono spesso in un quadro d’insieme pittoresco, come ha scritto diffusamente Jackie Wullschläger in diversi studi dedicati all’artista, ma qualcosa di reale, in questi fatti, ci deve pur essere perché quelli erano anni feroci e difficili, perché la società russa era terribilmente discriminatoria e la vita di un ebreo rimaneva sempre appesa ad un filo. 

 Nel 1907 a San Pietroburgo l’artista aveva cominciato a frequentare la scuola Zvantseva diretta da Leon Bakst, ove studierà scenografia e conoscerà le più importanti correnti post-impressioniste. Correnti che, nel 1910, approfondirà direttamente a Parigi, grazie all’aiuto di un mecenate russo che finanzia il viaggio: ecco allora il confronto, che immaginiamo appassionante, con Picasso, Gauguin e i Primitivisti, il Fauvismo di Matisse e Dufy, la cui incontenibile (selvaggia, appunto) forza del colore plasma la forma e non il contrario, e ancora Rouault, Bonnard, Van Gogh. Dapprima senz’altro attratto dal Simbolismo di Gustave Moreau e Odilon Redon, entra poi direttamente in contatto con i surrealisti già nel 1912 (Guillaume Apollinaire, l’ispiratore della nuova pittura poetica, lo definirà “surnaturel” anticipando il nome del movimento). Per quanto riguarda la corrente del Cubismo, che imperversava come caposaldo dell’Avanguardia artistica, Chagall assume da subito una posizione di netto rifiuto, poiché indirizzo troppo razionale e rigido, per lui. Nel 1914 ritorna nella sua amata Russia, si sposa con Bella Rosenfeld - la sua musa fino alla morte di lei - e, nel 1917, pieno di speranza, appoggia la Rivoluzione d’Ottobre. Questa sarà la sua prima grande delusione: confrontandosi con i rigidi diktat di regime e la linea artistica imperante, si ritrova in pieno contrasto sia con il sistema che, soprattutto con il Suprematismo Cosmico, supportato dallo Stato Sovietico, una versione ancora più schematica del Cubismo francese. Nel 1923 riesce, grazie ad appoggi diplomatici (o ad un amico favolista che conosceva Lenin), a fuggire dalla Russia verso Parigi via Berlino. Questo è l’inizio di una vita che solo in età avanzata gli restituirà la stabilità.

Nel 1924 fondamentale sarà l’incontro con Andrè Malraux, intellettuale ateo, tra i precursori del pacifismo, e tra i primi a richiamare il principio di “valore dell’uomo e della fratellanza” nell’economia delle scelte politiche. Malraux lo incanta con le sue teorie sul primato dell’arte come strumento di vittoria sulla bestialità umana. Grazie agli incontri con molti dei massimi artisti e intellettuali dell’epoca (tra i quali Modigliani, Léger, Soutine, Archipenko, i Delaunay, Andrè Salmon, Blaise Cendrars, etc.) Chagall istruisce ancora di più la sua identità di uomo e di artista, eppure, nonostante ciò, come ricorda lui stesso (M. Chagall, La mia vita, SE, 2012), rimane “un incomprensibile estraneo”, proprio allo stesso ambiente che era stato così importante per la sua formazione. Infatti, fin da subito l’artista esprime una dimensione di pittura assolutamente personale, sospesa tra narrazione didascalica e allegoria poetica, non sentendosi parte di nessun movimento, incuriosito da tutto ma affrancato dalle avanguardie. Si sente libero di attingere alle tradizioni popolari ebraiche ed alle fiabe, articolando composizioni di figure e colori che sembrano fluttuare disordinatamente sulla superficie della tela, sospinte da un vento fantastico, circolare, che lo avvicina all’esperienza dell’Orfismo di Robert Delaunay (con il quale avrà rapporti d’amicizia), quest’ultimo grande innovatore, che istruì una nuova pittura post-cubista, dominata dal vortice dell’emozione cromatica e dalla dissoluzione delle regole geometriche. L’importanza dell’esperienza artistica di Chagall segnerà la storia dell’arte moderna e contemporanea, al punto che, negli anni Settanta, egli diventerà il riferimento fondamentale per i Neo-Espressionisti, e successivamente negli anni Ottanta, per un movimento che, di quest’ultimo, è stata l’evoluzione italiana, ovvero la Transavanguardia. 

Eccoci, dunque, nella straordinaria Parigi degli Anni Venti. La fortuna dell’artista, già ormai noto agli amanti della pittura ha una svolta decisiva quando il poeta Blaise Cendrars lo presenta al grande gallerista Ambroise Vollard (1868-1939), promotore delle avanguardie, editore e mercante, scopritore del giovane Picasso (quando ancora si chiamava Pablo Ruiz) e sostenitore, fin dai primi passi, di Gauguin, Van Gogh e Rouault. Da quel momento egli inizia un intenso periodo di lavoro nel quale il mondo delle favole (La Fontaine e poi “Le Mille e una Notte”), la Bibbia (essa è stato l’alfabeto colorato in cui ho attinto i miei pennelli, dice) e la letteratura surreale e disperata di Njkolai Gogol, grande narratore russo dell’Ottocento, diventeranno le fonti cui attingere materiale narrativo per le sue opere. Purtroppo il Nazismo e le epurazioni etniche interromperanno questa attività di incisore e di pittore e lo spingeranno ancora una volta alla fuga: prima la Spagna poi il Portogallo e infine, nel 1941, gli Stati Uniti. In America sarà in contatto con molti celebri esuli ebrei, come il compositore Igor Stravinskj con cui collaborerà a teatro, ma senza grandi soddisfazioni. La morte della giovane moglie, per infezione virale, sarà per lui una ferita non rimarginabile. Dunque riparte per la Francia per l’ennesima volta, e siamo nel 1947, ove troverà il successo definitivo. Acquistata una proprietà nel Sud, in Provenza, continuerà a lavorare e frequentare sia Picasso che Matisse.

 Il riconoscimento internazionale, in quegli anni lo acclama in Israele, in Italia, nel nord Europa, negli Stati Uniti e infine anche nella Russia che l’aveva disconosciuto: un periodo che segna il definitivo incardinarsi nella storia dell’arte di questo pittore prolifico che conservò fino agli ultimi anni la freschezza dell’ingenuità consapevole e una dirompente forza espressiva e morale. 

Ritorniamo indietro nel tempo, molti anni prima della sua finalmente serena vecchiaia provenzale. Il 1938 è un anno spaventoso per l’Europa, coinvolta in qualcosa di molto simile ad una apocalisse biblica. Il regime di Hitler, teso all’espansione aggressiva e universale del Reich Nazista, esprime con follia criminale il piano definitivo di eliminazione fisica e depredazione della ricca e laboriosa popolazione ebraica che fino a quel momento, per moltissime generazioni, aveva contribuito attivamente, con la cultura, il commercio e con la partecipazione militare prima alla crescita del regno prussiano, e dopo della stessa moderna Germania. Si profila dunque un’autentica mutilazione culturale: centinaia di migliaia di persone di tutti i ceti, dai commercianti agli operai, dagli intellettuali agli artisti, dagli industriali ai funzionari di stato vengono prelevate, con retate che non discriminano né età né sesso e condotti ai campi di sterminio. Il 1938 è lo stesso anno della Notte dei Cristalli di Berlino. Ricordiamo brevemente che con questo nome si ricordano i pogrom in cui, tra la notte del 9 e la mattina del 10 Novembre, migliaia di negozi, sinagoghe e abitazioni private di ebrei vennero distrutte in tutto il Terzo Reich su precisa istigazione di Joseph Goebbels, ministro nazista della propaganda: il bilancio delle vittime fu di quasi duemila persone. Proprio in quell’anno, Marc Chagall dipinge la “Crocifissione Bianca” nel suo studio vicino al Trocadero, in una Parigi depressa, occupata dai Tedeschi e, lo immaginiamo lavorare con l’ansia di essere prelevato dalla polizia da un momento all’altro. Nel 1937 le sue opere erano già state epurate dai musei tedeschi, in quanto “artista degenerato”, ed essendo anche ebreo la sua deportazione rimaneva una possibilità reale. 

Fortunatamente, nello stesso anno, riesce ad entrare in clandestinità, si nasconde infatti a Villa Air-Bel di La Pomme a Marsiglia, nella cosiddetta zona “libera”. Nel piccolo castello di La Pomme, avevano trovato rifugio molti intellettuali e artisti ebrei grazie all’Emergency Rescue Committee americano, attraverso l’opera di finanziatori come Mary Jane Gold e Peggy Guggenheim, nonchè le azioni coraggiose del giornalista Varian Fray, proprietario della casa; senza di loro Marcel Duchamp, Andrè Breton, Max Ernst, Walter Benjamin, Claude Levi-Strauss, e molti altri, non sarebbero sopravvissuti e probabilmente gran parte della storia dell’arte americana del dopoguerra avrebbe avuto uno sviluppo diverso. Per l’esule russo Chagall vuol dire ritornare agli incubi del passato; era arrivato in Francia negli anni Venti, sfuggendo al regime stalinista, con le speranze del sognatore e con estrema fatica aveva portato avanti il suo mestiere di pittore, e ora, cinquantunenne, doveva abbandonare, un’altra volta, tutto quello che aveva costruito e rimettersi in viaggio con la disperazione nel cuore. 

Per l’artista bielorusso la disperazione è un sentimento “atavico”, che avverte nel suo DNA, forse perché egli stesso porta nelle vene i secoli di persecuzione dei suoi antenati, e come i suoi avi, nonostante tutto, sente la presenza del sorriso come “via” per capire la vita e per entrare nel Olam Habà, il “mondo a venire”. L’umorismo ebraico ha origine in quella zona sottile che si insinua tra il paradosso e l’improbabile, in quel witz (guizzo) che permette di affrontare la difficoltà delle discussioni talmudiche e la variegata complessità dei significati multipli di uno stesso problema. Lo stesso Profeta Elia parla di “sorriso di Dio” (Elia, 2 Re, 2.11) e le sue vicende nel trattato di Ta’anit (Talmud, Gemara, 22A) o le piccole storie del Qohelet Rabbah (Ecclesiaste) ne sono l’esempio ( rif. Sira Fatucci su “Moked.it”) Chagall allora agisce proprio come i badhanim, cioè coloro che, nella società ebraica, andavano tra la gente per rasserenare gli animi raccontando storie, spesso metaforiche, o addirittura per pacificare le diatribe. L’artista è dunque capace di fondere il riso al pianto perché questo atteggiamento è caratteristico della sua cultura yiddish, nella quale la speranza in Dio e nell’Amore si ritempra nelle generazioni future, attraverso la fiducia nella parola di Dio ma anche in un atteggiamento di positiva comprensione della Creazione, con buona volontà dell’uomo di resistere e andare avanti. D'altronde in lui è presente un senso di ingenuità poetica, che gli fa credere all’Amore nonostante tutte le difficoltà… e poi quale condizione permette, ad un poeta, di trovare l’Amore, in un mondo così pieno di dolore, se non la stessa dimensione dell’infanzia, l’età della purezza? 

Per Chagall, come spesso egli ha avuto modo di spiegare a chi lo intervistasse, l’Infanzia, è senz’altro sia ricordo reale che sogno. Un’età in cui si è capaci di guardare le cose senza malizia e di trasformare, con l’immaginazione, le storie più brutte in favole. Ecco allora il simbolo chagalliano dell’ingenuità infantile apparire spesso in molte sue opere, come una specie di marchio: l’asinello. Anche nella “Crocifissione Bianca” si nota la presenza del piccolo asino, il simbolo di un mondo bucolico, soprattutto immaginato. Chagall vede il mondo attraverso gli occhi del piccolo Moshe, ovvero di sé stesso, volendo conservare per tutta la sua vita il “desiderio di volare sopra i tetti”, come viene riportato dalla moglie Bella, nelle sue memorie postume (“Come fiamma che brucia”). Il pittore vuole cogliere “la verità nelle piccole cose”, riuscendo nell’impresa, difficilissima, di conservare nello stesso momento l’atmosfera giocosa e la tensione drammatica, la leggerezza della favola e la solidità etica. Dunque la mésalliance, l’amalgama, tra gioco e tragedia, tra gravità e ingenuità, che appare come un semplice gioco narrativo, ha invece il senso di sentimenti e ragioni profonde. 

Senz’altro il giovane Chagall conosceva la “Crocifissione Gialla” di Paul Gauguin del 1889, nella quale l’artista parigino riconduce il Cristo alla dimensione rustica e provinciale delle campagne bretoni, assumendo un impianto di colore sintetico che richiama l’arte dei decoratori di vetrate delle cattedrali gotiche; l’altrettanto celebre e successiva “Crocifissione Gialla” di Chagall, del 1943, è un richiamo a quell’opera. Egli sceglie la crocifissione, che è il soggetto più tragico della storia dell’arte, non per comporre una raffigurazione religiosa nel senso tradizionale del termine, bensì per “rappresentare” un dolore universale. Il dipinto in effetti appare come un’icona russa, dall’impianto cristocentrico, caratterizzata da uno schema circolare intorno alla croce, secondo cui si articolano gli episodi narrativi (la distruzione del villaggio, i saggi ebrei che si disperano, l’incendio della Sinagoga, i profughi sulla barca, l’Ebreo Errante…). In questo modo, tipico della tradizione bizantina della rappresentazione taumaturgica, egli riesce non solo a raccontare la storia degli ebrei ma, proprio grazie al richiamo del Cristo, ammonire l’umanità di quanto sia folle la violenza e la totale mancanza di pietà. La scena ha un impianto di tipo cubista-orfico e che esprime una verticalità centrata sulla croce che si contrappone al cerchio degli eventi di cui è il centro. Nonostante il suo titolo, il colore bianco è solo parzialmente presente, reso con una pastosità particolare, infatti il Cristo è illuminato da un fascio di luce netto, che viene da destra, una luce polverosa, nebulosa, che non riesce a dipanare completamente le aree periferiche dell’opera soffocate da un’oscurità sporca, fuligginosa. In questi bordi anneriti avvengono, secondo uno schema “a vortice”, le scene dell’umana sofferenza, le storie drammatiche dell’esodo e della persecuzione, della morte e della distruzione. La luce è quella di Dio che illumina Gesù, essendo Egli “la luce del Mondo”, essa si rivela in un chiarore denso che, in mezzo a tanta sofferenza, indica agli uomini che l’unica possibilità di salvezza. 

Gesù è “interpretato” come un uomo e non come un re (gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano, dice Chagall in alcuni scritti ritrovati negli anni Settanta). Il Gesù di Chagall è un ebreo, un rabbino illuminato, in linea con l’interpretazione ebraica, ecco perché lo dipinge con un panno sul capo, in luogo della corona di spine, e con un taled, lo scialle usato per la preghiera ebraica, stretto ai fianchi. Il Cristo, abbiamo detto prima, è un modello per il pittore, un archetipo assoluto del martirio. Questa crocifissione diventa, dunque, l’emblema del dolore della diaspora ebraica. Il ritmo di questo drammatico “fantascopio” (meccanismo con le foto in movimento dei primi Novecento) è scandito dalla sintesi delle figure dai tratti semplici come se fosse un bambino a disegnare: il villaggio della Bielorussia in fiamme che è un’immagine emblematica dei pogrom; la sinagoga che brucia e le profanazioni a ricordo delle distruzioni della Notte dei Cristalli; la Menorah il candeliere a sette braccia che deve rimanere perennemente acceso, che rimane tale ai piedi della croce, protetto dal Cristo; i profughi sulla barca e Ashvero l’Ebreo Errante; la Torah portata in salvo, come bene più grande, perché è Parola di Dio; in alto i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe con Rahele che piangono disperati per i figli d’Israele. L’effetto di questo segno ingenuo amplifica nell’osservatore il senso di stupore e fragilità dei personaggi nei confronti della violenza. 

Tanto è stato scritto sull’impianto compositivo di questa crocifissione in quanto essa presenta molteplici riferimenti storici e simbolici ma non vogliamo dilungarci su ciò che è ampiamente recuperabile nei numerosi testi di storia dell’arte, piuttosto desideriamo fare luce sul ruolo di quest’opera all’interno di un più vasto ragionamento, ovvero su ciò che questo dipinto significa e perché un pontefice come Francesco abbia voluto far sapere al mondo che lo apprezza. È evidente: Chagall sta componendo un ragionamento non religioso, piuttosto “religante”, ovvero che, con un senso non prettamente dogmatico del Sacro, parla dei valori del Sacro, anzi ci parla di Dio. Chagall dipinge la Crocifissione, non solo perché vuole esemplificare il concetto di estremo patimento ma perchè, con la sua capacità di attingere all’atlante iconografico delle Sacre Scritture (San Giovanni Paolo II, “Lettera agli artisti”,1, 4 Aprile 1999) e con l’uso delle figure simboliche, ci vuole dire che l’unica via di salvezza è la speranza in Dio, cioè la Fede. Uomini che hanno perso tutto, che sono sconvolti dalla paura e dalla precarietà, fuggono portando con loro solo la parola di Dio, unico vero tesoro prezioso, ecco perché l’artista raffigura profughi che stringono la Torah, la Bibbia, piuttosto che le suppellettili delle abitazioni o gli arredi tradizionali del Tempio. A questo punto pensare che quest’opera, costruita volutamente con tale lucida coerenza, possa essere letta come un ponte di unione tra la religione cattolica e quella ebraica non è così azzardato. E ancora di più non ci sembra un errore che questo dipinto, incentrato sulla forza della Fede come atto di speranza, ravvisi un testo valido per tutti, a prescindere dalla dottrina religiosa. 

Da quando il Cardinale Bergoglio è asceso al Soglio Pontificio la direzione della sua opera di evangelizzazione è stata caratterizzata immediatamente da uno stile “elastico”, sia nella comunicazione che nella scelta dei temi, individuati nell’emergenza sociale e politica dei suoi tempi. In effetti Francesco è un Papa contemporaneo, il primo Papa veramente contemporaneo, che vive e cerca di comprendere secondo il suo ruolo, non solo da Capo della Chiesa ma soprattutto da cristiano, il tempo esatto in cui vive, immergendosi totalmente nelle sue problematiche e tenendo ben saldi gli obiettivi del ministero petrino (“Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento”, Intervista di A. Spadaro, Civiltà Cattolica, III, 449-477, 19 Settembre 2013). Lo stesso Papa, vivendo nel momento stesso in cui evolvono fatti di straordinaria importanza in tutto il mondo, coraggiosamente, si fa interprete dell’emergenza, cercando di attingere ai valori universali che uniscono gli uomini, senza irrigidirsi sulla formalità. Riguardo alla questione della formalità, Papa Bergoglio dedica parole interessanti, entrando nel vivo della vocazione del suo stesso Ordine, la Compagnia di Gesù: “Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto.” (ibid.) 

L’azione di papa Bergoglio, forse estrema per tempi estremi,assume una posizione molto chiara dicendo che “Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva.” (ibid.) Ricordiamo, soprattutto a chi impugna rigidamente quest’opera pittorica come un esempio di blasfemia, proprio per questa commistione religiosa che la caratterizza, che già nel 1959 la Chiesa ha operato un discernimento su importanti posizioni della dottrina aprendosi, con spirito di apertura intellettuale e di senso di misericordia, proprio con il pontificato di San Giovanni XXIII. Fu questo Pontefice, dopo lunghi confronti con uno studioso di antigiudaismo di nome Jules M. Isaac, che iniziò un processo di de-colpevolizzazione degli Ebrei che nel Vangelo di Matteo erano tacciati d’essere il “popolo deicida” e fu lo stesso Papa Roncalli ad eliminare, nella liturgia del Venerdì, l’espressione “pro perfidis Judaeis”. L’evento aprì un canale di comunicazione e di comprensione tra i Cattolici e gli Ebrei che oggi continua con eguale rispetto da entrambe le parti. 

A fronte di questa disponibilità, di questa elasticità di pensiero che vede l’apertura intellettuale, la discussione e il confronto, i modi fondamentali per percepire “pro Gratia” l’aura mistica delle cose, e dunque essere più vicino a Dio, che il Papa, non può che dirigersi verso la Pace. Pace che vuol dire, oggi più che mai, il dialogo interreligioso. Tutto ciò è chiaramente motivato dalla necessità di non porre nuovi ostacoli, o motivi di attrito, nelle enormi tensioni causate dagli integralismi, dallo scontro tragico tra Medio Oriente, Israele e Occidente. Un atteggiamento di “(…) dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore.” dice lo stesso Pontefice (ibid.) Essendo, il Pontefice, come abbiamo già ricordato, più attento ai principi universali che uniscono piuttosto che alle norme formali che possono separare (“le regole hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e dichiarare troppo il carisma”, ibid) egli porta la testimonianza dei principi che Cristo indica universalmente, e mette in chiaro il concetto di Speranza. 

Bergoglio afferma che questa Crocifissione giudaico-cristiana, è “ricca di speranza (mostrando, ndt) un dolore pieno di serenità” (T. Verdon, Intervista, Aprile 2017). La calma e la serenità del Gesù di Chagall, crocifisso in mezzo al Caos, è l’indice di come il dolore si possa accettare con l’assoluta fiducia in Dio. “Questa è la speranza: vivere protesi verso la rivelazione del Signore, verso l’incontro con il Signore”, dice il Papa, e nonostante le tribolazioni della nostra vita, la speranza è “buttare un’ancora all’altra riva” (Omelia di Papa Francesco, Messa di Santa Marta, 29 Ottobre 2019). Articolare un ottimismo non fine a sè ste stesso, ai propri desideri o fantasie, ma come virtù fondamentale di colui che si affida a Dio completamente, che sente Dio vicino a lui e che trova dentro sé stesso la forza per superare le avversità proprio attraverso quella fiducia incondizionata che può cambiare la vita, anche in un momento di disperazione assoluta. 

Un insegnamento, quello indicato da Papa Bergoglio, forse “scomodo” per tutti noi che viviamo immersi in una realtà che allontana il mistero da sé e si affida sempre di più all’oggetto taumaturgico. La speranza è un dono dello Spirito Santo, dice il Papa, e dunque non si può comprare, non si può costruire con azioni mondane, affidandosi al semplice raggiungimento di soluzioni pratiche. Considerazioni che sono parte del divenire di una nuova ermeneutica evangelica (L. Accattoli, Il “pensiero incompleto” del Papa. Al posto dei punti fermi, “il regno.it”, pag.695, 15.12.2017) che esplorano una realtà complessa, enunciata con una inedita immediatezza comunicativa. Comprendere le motivazioni del suo interesse verso la “Crocifissione Bianca” di Chagall permette di far emergere aspetti di questa complessità, elementi importanti della sua azione evangelica, espressi con una chiarezza esemplificativa che in realtà sintetizza, sottotraccia, una ben precisa articolazione di “verso” nel quale orientare la Chiesa e soprattutto le sue azioni nella società attuale. Nella sostanza, le considerazioni di Papa Bergoglio, rimangono concetti difficili da sostenere, per tutti noi, immersi in un’epoca nella quale i risultati e le risposte devono essere immediati, nella quale la vittoria sul dolore della malattia, della morte, della privazione, viene continuamente promessa come un semplice risultato di causa ed effetto.

Tutto questo ci aiuta a comprendere, nonostante i fraintendimenti della vita contemporanea, che la Fede ispira il senso di fiducia nel futuro, nonostante le ferite dell'ingiustizia che segnano il nostro mondo, ed ancora di più istruisce una lotta pacifica, individuale, ferma e severa, contro l'ignoranza, che è una facile via per il male e per l'empietà.

Top 10
See More