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Per fare il pane non occorrono mani pulite ma un’anima affamata di bene

LABORATORIO, PANE, CAIVANO
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Annalisa Teggi - pubblicato il 25/03/21
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Un laboratorio del pane per ragazzi e bambini nella cornice di una delle più grandi piazze di spaccio d'Europa, il parco di Caivano. "Anche in queste periferie i nostri bambini meritano la bellezza".

Mi sono imbattuta in un video che ci dà notizia di qualcosa che è più di una storia di cronaca. E' una piccola impresa di amicizia e lavoro circondata dalla tentazione feroce della violenza. E' una testimonianza tutta incentrata su uno dei simboli più quotidiani e potenti: il pane.

In una delle periferire più famigerate d'Italia, quella di Napoli, qualcuno ha messo in piedi un laboratorio di panificazione per salvare i bambini e i ragazzi dall'incubo della criminalità e della droga. Siamo nel Parco Verde di Caivano, una delle più grandi piazze di spaccio in Europa.

A Caivano vivono centinaia di famiglie, ci sono bambini che crescono vedendo un mare di siringhe nel recinto della loro quotidianità. Crescono a un passo dall'ipotesi che il sopruso e la violenza siano l'unica strada per farcela.

Bruno Mazza, che ha creato questo laboratorio del pane, lo sa bene: lui è stato uno di quei ragazzi caduti nella rete della criminalità. Ha raccontato la sua storia di giovane affiliato alla Camorra e poi di adulto che ha cambiato radicalmente vita. Di 14 suoi coetanei 12 sono morti: questo il tragico bilancio che ha scosso e innescato il bisogno di un'alternativa.

A Caivano non c'è sono violenza, ci sono anche genitori che sperano in un futuro buono per i loro figli. Il laboratorio del pane è un'idea-salvavita, perché con le scuole chiuse a causa del Covid il rischio era che i ragazzi e i bambini finissero a bazzicare nelle piazze di spaccio e cadessero nella trappola di una vita criminale.

Avere le mani in pasta è un'espressione ambigua, può significare il contrario di fare qualcosa di buono. Ma nel caso in questione è un gesto ribelle e molto buono. E' fare comunità e mostrare il frutto di un lavoro che richiede passione, impegno e fatica. Dal forno ogni giorno escono pagnotte, pizze e focacce.

E, si sa, può far storcere il naso l'idea di mangiare un pane sfornato in mezzo a una periferia disagiata e avvelenata dalla droga. Ci sarà da fidarsi? Avranno davvero le mani pulite?

C'è sempre lì, annidata dentro di noi, una presunzione di pulizia che ci corrode. Qualcosa è buono solo se esce da un'anima perfettamente candida: questo è ciò che Chesterton chiamava il vizio dell'igiene.

L'uomo che davvero s'impegna in qualcosa non avrai mai le mani perfettamente igienizzate. E si lascia contemplare in silenzio l'immagine di un uomo che fa il pane sapendo bene che quelle stesse mani sono capaci di sparare o spacciare.

Gira piano. Guarda qua, lo vedi? Il lievito si deve sciogliere.

Con queste parole Bruno guida uno dei suoi ragazzi, gl'insegna l'arte dell'impasto. Ed è quella magia per cui da tre soli ingredienti semplicissimi - acqua, farina e lievito - esce il cibo che non manca (o non dovrebbe mai mancare) sulla tavola.

Siamo affascinati dalle prelibatezze degli chef stellati, ma c'è un gusto infinito nel mangiare un pezzo di pane fresco. Dà il buonumore, conforta, nutre. E il segreto sta nella lievitazione, croce e delizia di ogni apprendista panettiere. Bisogna avere pazienza, bisogna mettere l'impasto al caldo, bisogna conoscere ogni specie di farina.

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Forse il lievito è proprio l'antidoto alla droga? Una dose di eroina sballa subito, poi l'effetto sparisce e non restono che cadaveri. L'azione del lievito è opposta: è lentissima, non ha sapore ma cambia per sempre un impasto altrimenti immangiabile.

Potremmo scomodare mille metafore e storie per dimostrare quanto è educativo mettersi a fare il pane. Ma la verità è che non ne abbiamo bisogno, perché lo sentiamo con un'immediatezza e una corrispondenza eclatanti. Spezzare il pane con gli amici, Gesù lo fece e non si perse in esegesi. Quel gesto rimane come immagine di dono e fraternità anche per chi non crede.

Fuori da questa ipotesi c'è un parco pieno di spacciatori in attesa di divorare anime.

Che cosa gridano quelle siringhe buttate per terra centinaia nel Parco Verde? Criminialità e disagio? Ragazzi perduti? Fallimento dello Stato? Ogni siringa è una persona che l'ha data vinta alla dipendenza, a un inganno brutale: spegnere i morsi di una fame di bene con lo stordimento, l'eccesso, quel di più che sballa e non sazia.

Allora c'è una periferia di Caivano anche oltre la porta di casa mia, perché la stessa tentazione nascosta nel bisogno di una dose sa vestirsi con abiti migliori, accettabili. Io non assumo eroina e neanche altre specie di droghe leggere, ma non sono immune da molte specie di dipendenza.

Ho le mie molte overdosi. Spessisimo mi faccio iniezioni di distrazioni o soddisfazioni per avere una spinta, o per placare i morsi di una fame che - però - non passa.

E a ben vedere, nelle periferie dello spaccio si mostra a cielo aperto quella verità sconcia che noi brava gente teniamo nascosta ben bene. Ci crediamo padrone della scena, ma tutti siamo dipendenti. Aver dimenticato che dipendiamo dall'abbraccio di un Padre non ci ha tolto il bisogno di aggrapparci, ha solo dato il benvenuto una folla variegata di spacciatori che ci vuole come schiavi (non figli).

Il nostro Signore Gesù Cristo chiamandosi pane va in cerca di affamati - Sant'Agostino

Affamati (e dipendenti) lo siamo, e l'alternativa è sempre tra una piazza di spaccio e un forno. Tra lo sballo di una dose e un morso di pane buono. Ed ecco che, allora, torna quella domanda. Da chi andremo, Signore?

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