L’apparente carattere assertivo di proposte morali e giuridiche che, in nome di un “diritto alla disperazione”, chiedono il riconoscimento dell’eutanasia e del suicidio assistito, in realtà cela in sé la grande paura che l’uomo ha di riconoscersi come essere limitato, fragile, e in un certo senso solo nell’affrontare la propria storia personale, non sempre facile da gestire, e comunque necessariamente destinata alla morte.
Di fronte al dolore e alla sofferenza, l’uomo si trova disorientato, e cerca disperatamente la felicità, cogliendo invece la propria finitudine, e piuttosto che aprirsi all’altro, fa affidamento alle sole forze che gli restano, rivendicando una solitudine che detesta, ma che continua a scegliere. In questo contesto storico la riflessione bioetica contemporanea si è spesso limitata a dare giudizi e a definire la liceità o la non liceità delle azioni scientifiche o sedicenti tali, senza però proporre soluzioni alternative a questa paura specificatamente umana.
Quando molti chiedono che venga riconosciuto “il diritto a morire”, possiamo dedicare il nostro tempo a ribattere a certe affermazioni: ma questo è abbastanza efficace? Forse sarebbe più fruttuoso proporre la bellezza del gioioso vivere (e morire) cristiano, carico di eternità, piuttosto che rischiare di cadere in un dibattito sterile, in difesa delle evidenze.
Mabel, personaggio del libro: “Il padrone del mondo” di Robert Benson prima di portare a compimento il suicidio assistito scrive al marito: “Amato sposo. Ti invio la dolorosa notizia che sono tornata all’antica follia. Non ho la forza di resistere ancora e perciò mi sono decisa ad andarmene per l’unica strada che ancora mi resta. […] E’ la vita, non la morte, a farmi paura”.
Siamo sicuri che questa sia “l’unica strada”? Perché non proporre un’alternativa, che definirei “rivoluzionaria” nella nostra epoca? Perché non provare ad andare fuori schema? Esiste un’alternativa possibile davanti al mistero della sofferenza, in particolare della sofferenza causata da una malattia incurabile? Un paziente (o in generale un uomo) definito “senza speranza” può sperare?
Sembra quasi che la morte e il dolore mettano fine alla nostra libertà: tante volte lo abbiamo pensato. Ma se così davvero fosse, significherebbe che la libertà, libertà non è, dipendendo da qualcos’altro. Se vogliamo essere veramente liberi, lo dobbiamo essere nei confronti di tutto, anche del dolore, altrimenti la nostra libertà sarà sempre una libertà parziale, che dipende da qualcosa, e perciò contraddittoria in sé stessa. Il dolore ha a che vedere con la libertà: sono io che posso scegliere come viverlo: con la volontà da parte mia, e la grazia da parte del Cielo.
La speranza, infatti, prima ancora che essere una virtù teologale, può essere vissuta come una disponibilità, un’apertura a vivere ciò che mi è dato. Non è accettazione, passiva, di qualcosa che sono “obbligato a vivere”, ma la scelta libera di dare vita, dare sapore, dare senso alla realtà, anche a quella dolorosa, quella incomprensibile, quella che vorremmo evitare e che sembra mettere la parola “fine”.
Quando viviamo un dolore, tutti noi ci domandiamo: “Perché proprio a me?” Curioso! Sembra che dentro il nostro cuore ci sia una ferma convinzione che il finale della nostra storia debba essere bello, buono, vittorioso. Questo atteggiamento racchiude una grande verità: è vero che ci aspetta qualcosa di bello, solo che non ci crediamo fino in fondo. Invece il lieto fine c’è sempre. E questo non è ottimismo: l’ottimismo ci dice “andrà tutto bene”, vanificando il senso stesso del dolore. Se invece approcciamo la realtà con un sano realismo, capiremo che dentro il dolore e l’esperienza della morte che sono inevitabili per la nostra condizione di esseri umani, c’è una corrispondenza con un di più, un bello che ci attende. Basta solo essere disponibili a rischiare! Questa è speranza. Vinceremo contro il dolore, di certo feriti dalla malattia, ma accarezzati dalla speranza, aperti e disponibili ad accogliere vita e quindi fecondi.
Ecco l’alternativa valida all’eutanasia: stare nel dolore, con un atteggiamento disponibile e per questo speranzoso. Non serve attendere il momento della morte: tutti giorni possiamo allenarci, come fanno gli atleti, in vista dell’appuntamento che nessuno può declinare. Faremo esperienza della nostra piena umanità, e nello stesso tempo della nostra appartenenza al Cielo.